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Falso, falso e falso! Le beghe dell’ex Sottosegretario alla Cultura e della politica culturale

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(Tempo di lettura: 4 minuti)

Sopra la panca la capra campa. Sotto la panca la capra crepa

Roberto Iras Baldessari (1894-1965) è stato un artista italiano che ha frequentato la Scuola di Arti applicate di Elisabettina di Rovereto e l’Accademia di Belle Arti di Venezia; uno dei massimi esponenti della corrente futurista, con impronte di produzione astratte e dadaiste. Notevole la sua serie di incisioni, in particolare di acque forti. Le sua opere sono state celebrate più volte nella città di Rovereto, dove l’artista è vissuto per lungo tempo, con mostre e iniziative culturali.

Proprio da qui, ahinoi, sono sorti i problemi, intorno al Museo di Arte e Moderna e Contemporanea del comune trentino, di cui Vittorio Sgarbi è direttore. Come già segnalato la scorsa primavera da un’inchiesta del quotidiano il Fatto, la mostra organizzata in quel contesto, dedicata proprio a Baldessari, era contraddistinta dalla presenza di falsi tra opere originali, come paventato anche dal critico d’arte Giancarlo Cappelletti. Sgarbi aveva rassicurato che i dubbi su tali lavori risultavano infondati e la problematica così sollevata “inesistente”.
Fatto sta che 41 dipinti su 70 sono stati sequestrati su disposizione della Procura di Rovereto, che ha aperto un fascicolo di indagine per i reati di falsificazione e ricettazione di beni culturali, indagando il curatore e gli organizzatori della mostra nonché i proprietari prestatori delle opere.

Non è ancora chiaro se Sgarbi sia indagato in questo procedimento, ovvero debba fornire spiegazioni in merito all’accaduto nella veste di persona informata sui fatti. Certo è che le beghe giudiziarie sembrano attanagliare il super impegnato ex sottosegretario, già indagato per due vicende: la prima riguarda l’evasione fiscale per l’acquisto di un dipinto, la seconda per la tela di Rutilio Manetti, sottratta negli anni novanta dal Castello di Buriasco, che tante polemiche ha sollevato così da indurre le dimissioni dall’incarico governativo dell’interessato.

Al di là dell’esito dei procedimenti giudiziari, di cui si occuperanno inquirenti e magistratura, non si placano le diatribe soprattutto perché i curatori della mostra roveretana erano tra i membri del comitato scientifico della mostra sul futurismo della GNAM di Roma del prossimo ottobre. Coincidenza che avrebbe comportato la mancata esposizione di numerose opere, frustrando le aspettative degli organizzatori, compreso l’ex ministro (quanti ex, sic!).

Altre inchieste giornalistiche del Fatto hanno messo in luce alcune situazioni quanto meno curiose, che riguardano mostre di riproduzioni artistiche svoltesi a Urbino negli ultimi anni, che avrebbero visto un interessamento diretto sempre di Sgarbi. A seguito di ciò è stato depositato un esposto alla Corte dei Conti per accertare se vi siano state irregolarità sulla gestione di fondi pubblici.

Insomma, tutte queste vicende non sembrano costituire il contorno perfetto se osservate in concomitanza al G7 della Cultura in Italia, al di là delle pose e delle location di sfondo. È indubbio che questi fatti, al pari di altri emersi nelle ultime settimane, ingenerino preoccupazioni sulla gestione delle risorse economiche e umane in connessione alle politiche culturali nel nostro paese. Dubbi legittimi che andrebbero sanati con un’azione politica degna di questo nome.

Per rispetto delle indagini e del dettato costituzionale in particolare dell’art. 111 sul “Giusto processo”, non entreremo nel merito delle vicende penali, se non per alcune riflessioni di ordine generale e di interesse per la materia di tutela del patrimonio culturale.
Le vicende in relazione alle ipotesi di reato formulate sono gravi, sulla base di quello che è l’impianto punitivo edittale delle norme introdotte nel Codice Penale a seguito della ratifica del Trattato di Nicosia.
La ricettazione di beni culturali (art. 518 quater Codice Penale) prevede la reclusione da quattro a dieci anni e la multa da euro 1.032 a euro 15.000.
La contraffazione di opere d’arte (art. 518 quaterdecies Codice Penale) prevede la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 3.000 a 10.000, nonché la confisca e la distruzione degli esemplari individuati come falsi.

Lo abbiamo scritto più volte su queste pagine come il ricorso alla repressione, alla norma penale sia da ritenere, per certi versi, un fallimento della prevenzione e di tutto ciò che vi ruota intorno a livello di governance e policies culturali. Tante chiacchiere e pochi fatti? Tante falsità poca verità?

La politica sembra perdere sempre più terreno. L’azione in questo ambito è ormai dettata dai fattori economici che di fatto pesano in ogni contesto, ingenerando e accelerando pratiche disfunzionali di difficile comprensione, nei fatti di scarsa utilità, bensì di rigida imposizione: un processo che promana dall’alto e che mal si concilia con la sfera democratica.
Se teniamo davvero al nostro patrimonio culturale dobbiamo risolvere questo problema emergente: il conflitto tra il funzionamento della democrazia con l’economia contemporanea, che si esprime con dinamiche di mercato e di consumo frutto di una tecnica dominante, rapida nel suo evolversi ma allo stesso tempo poco inclusiva.
Se tutto ciò non corrispondesse al vero, sarebbe potenzialmente astratto, di converso reale, tangibile e non può dunque essere un falso problema.

La prova dell’esistenza di queste disfunzioni è data dagli effetti ormai plateali, fuori controllo, generati anche da condotte devianti, se non criminose. Con uno sguardo attento, scevro da pregiudizi e intenti forcaioli, possiamo ragionevolmente affermare che vi sono delle connessioni, al netto della responsabilità individuali, e diversi gradi e livelli di corresponsabilità, da cui ognuno non dovrebbe sentirsi escluso, financo le capre.

Parafrasando Rousseau, tenuto conto del portato ancora valido del suo contributo al pensiero filosofico-politico, nel merito dell’eguaglianza sostanziale dei cittadini, la democrazia esiste davvero laddove non c’è nessuno così ricco da comprare un altro e nessuno così povero da vendersi.
È in definitiva una questione etica, non monetizzabile per fortuna, ma per questo probabilmente più importante per l’intera collettività.

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