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La cultura come fenomeno artificiale, globale o sublunare: verso l’approccio olistico?

(Tempo di lettura: 6 minuti)

C’è qualcuno lassù, oltre il cielo stellato, un nemico invisibile e armato

(Tratta dalla sigla iniziale del cartoon “Traider G7”)

 (Foto: Agnese Sbaffi e Emanuele Antonio Minerva – Ministero della Cultura)

L’Italia, quale Stato di presidenza del G7 della Cultura, ha ospitato lo scorso 20 settembre a Napoli l’incontro di vertice per fare il punto sulla situazione e compendiare gli intenti in una dichiarazione conclusiva che richiama alla responsabilità comune per affrontare le sfide culturali.

Il documento si articola in:
– la tutela e la promozione delle identità culturali;
– la cultura e la creatività nell’era dell’intelligenza artificiale;
– il G7 e la lotta globale al traffico dei beni culturali;
– rafforzare la resilienza del patrimonio culturale di fronte ai cambiamenti climatici e ai disastri naturali.

Le suddette dichiarazioni si collegano con le ben note convenzioni internazionali, in primis quelle dell’UNESCO che, a partire dal 1970 e fino al 2015, continuano a rappresentare un riferimento, ahinoi solo formale, in materia di educazione e di tutela della cultura a livello planetario.
Insomma ci si richiama a principi più o meno condivisi e si pensa di porre in essere azioni sul campo, in futuro sempre più evanescente, in un contesto geopolitico come quello attuale dove l’esacerbarsi e l’ampliarsi dei conflitti armati non facilita di certo le iniziative di crescita culturale che, come noto, si sviluppano, più di altre, in un clima di stabilizzazione, pace sociale e apertura, in un’ottica di piena cooperazione. Tutti i punti richiamati sono importanti, nella misura in cui la visione riesca davvero a connetterli tra loro in modo organico, così da implementarle e comporre una sintesi operativa.
Ci soffermeremo tuttavia sulla “lotta globale al traffico dei beni culturali”, diversamente dal mainstream, che sembra propendere per l’intelligenza artificiale (AI) presentandola come la novella panacea.

Nella dichiarazione, trattando di questo specifico fenomeno, si riferisce dell’“impatto devastante” del traffico illecito dei beni culturali: ci risiamo. In effetti l’impatto c’è. Banalmente se ci soffermassimo, sic et simpliciter, a considerare il fenomeno nel contesto dei conflitti armati ne avremmo già d’avanzo: il dato è storicamente assodato per cui, durante le fasi belliche, il patrimonio culturale immobile e mobile, oltre a essere pesantemente danneggiato, è anche depredato senza che vi sia un efficace e immediato contrasto. I danni si calcolano a posteriori e allora ci si butta all’inseguimento, nella speranza di ricostruire e recuperare il maltolto.

La Convenzione dell’Aja, a dispetto dei suoi settanta anni, pare sia stata accantonata se non completamente dimenticata, insieme a molto altro, facendo carta straccia dei tanto declamati diritti e valori universali. Andiamo oltre. Nell’affrontare il fenomeno specifico, il documento del G7, accenna alla criminalità organizzata e alla rete internet (social, web, dark web et alia) nel cui contesto si sviluppa ormai gran parte del commercio di beni d’arte e culturali sia lecito sia illecito: la scoperta dell’acqua calda. Il fatto che si ricorra a tecnologie di contrasto nel contesto è perciò parimenti scontato. L’Italia presenta il sistema S.W.O.A.D.S. (Stolen Works Of Art Detection System), sviluppato dai Carabinieri dell’Arte, quale strumento di supporto alle indagini: ma è sufficiente a prevenire e contrastare il fenomeno criminale nella sfera culturale?

La risposta temo sia negativa, nella misura in cui l’Italia è sostanzialmente l’unica a portare avanti questo tipo di iniziative, investendo un minimo nel cosiddetto enforcement culturale. Poco o tanto è relativo, ma c’è un fatto: il nostro paese è l’unico ad avere un reparto di polizia specializzato nel settore, con un asset operativo ben definito e risorse umane nettamente superiori a quelle degli altri stati. La Francia, per esempio, seconda in questa classifica, giusto per proporre una comparazione sensata, pare ne abbia meno della metà, in termini di agenti impiegati ne l’OCBC (Office Central de lutte Contre le trafic des Biens Culturels, organizzazione di polizia creata nel 1975) pare ve ne siano poco più di cento, meno di un terzo dei Carabinieri del TPC. Nessuna competizione, ma giusto per strutturare le dovute considerazioni sul tema, tenuto conto che gli altri stati europei, non parliamo poi di quelli extra UE, ne hanno molti meno. Qualcuno potrebbe dire che, a questo punto, la differenza tra pensiero e azione è macroscopica nell’attuare le policy di contrasto nello specifico settore. Non serve infatti essere fini analisti o esperti in art crime (termine albionico, un po’ radicalchic, sic!) per comprendere che c’è qualcosa che non funziona.

La verità è che la questione emergente, quella che non quadra, attiene in primis alla materia giudiziaria. Il canale di cooperazione di polizia, con l’opera di INTERPOL ed EUROPOL, funziona abbastanza bene, ma non è sufficiente, nella misura in cui le indagini penali, sul versante transnazionale, si attuano mediante l’esecuzione di rogatorie giudiziarie e, in ambito UE, di OEI (Ordine Europeo di Indagine). Su questo fronte siamo ancora lontani dall’addivenire a risultati pienamente soddisfacenti, nonostante l’impegno profuso dalle forze di polizia dei singoli stati, Italia in testa.

Chi ci legge sa fin troppo bene delle pendenti questioni penali in tema di restituzioni (si scriva rimpatri, mi suggerisce il nipote dello zio Sam, sic!). Su tutte l’Atleta di Fano, lungi ancora dal rientrare vittoriosamente in Italia, ovvero a “farsi una nuotata” lungo il litorale marchigiano.
D’altro canto, sul fronte interno, bisognerebbe rafforzare il ruolo del Comitato per il recupero e la restituzione dei Beni Culturali (DM n. 456 del 27/12/2022), deputato a svolgere compiti di coordinamento delle diverse attività del MiC nell’esercitare l’azione di restituzione dei beni culturali illecitamente usciti dal territorio nazionale e a ogni altra iniziativa diretta al recupero dei medesimi beni. Questo sembra essere l’unica procedura per ora praticabile nel immediatezza e nel breve periodo, atteso che molti stati non hanno ratificato il Trattato di Nicosia o altri accordi di cooperazione giudiziaria in materia. È quasi superfluo affermare come questo strumento di politica diplomatico-culturale, dipenda essenzialmente dall’autorevolezza, credibilità e peso specifico dello Stato, delle sue istituzioni, soprattutto quelle governative.

Duole dirlo ma, in ultima analisi, si può ragionevolmente affermare, senza stravolgere la realtà fattuale, che le convenzioni non sono sufficienti ad arginare il fenomeno; è necessario trovare nuovi strumenti e forme di collaborazione. Forse sarebbe utile monitorare ed ispirarsi alle dinamiche flessibili del mercato, che meglio di altre si adattano ai cambiamenti sociali, a volte li creano perfino. In questo senso bisognerebbe coinvolgere di più i privati, attraverso forme di responsabilizzazione, e rivedere alcune normative nonché prevedere varie forme di incentivo a partire dalla semplificazione burocratica e dall’armonizzazione delle normative di tutela, soprattutto quelle attinenti alla circolazione dei beni culturali che, ripercuotendosi sul commercio interno, sembrano funzionare come un incubatore al contrario. Non da ultimo la questione fiscale che, argomento quanto mai spinoso, invece di essere trattata con la dovuta competenza tecnica (stupisce la controtendenza), viene considerata solo in termini ideologici basandosi sull’equazione: chi si può permettere di acquistare beni culturali e/o d’arte ha i mezzi finanziari e quindi è giusto che paghi più tasse. Peccato che chi dispone di ingenti mezzi finanziari se ne infischi proprio di queste norme, preferendo acquistarli altrove, con modalità schermate al fisco, precludendo di fatto la possibilità di un intervento dello Stato o di altri enti pubblici, ovvero senza fini di lucro, di esercitare una concreta attività di valorizzazione che non può trascurare i beni d’arte/culturali transitanti sul mercato: occasioni e potenzialità vanificate.

Conferenza stampa finale del G7 della Cultura 2024

È doveroso un accenno al fenomeno della criminalità organizzata in relazione al traffico dei beni culturali. Sembra che questo argomento alimenti più i romanzi che le ricerche criminologiche puntuali, basate su metodi scientifici. Troppo spesso si leggono e si sentono commenti, provenienti anche da cosiddette “fonti referenziate”, indicanti numeri e valori sconvolgenti senza la precisa indicazione di riferimenti, statistiche e studi degni di questo nome. Ci preoccupiamo di quello che non hanno detto/non detto Messina-Denaro e/o altri boss e criminali di varia estrazione (e i colletti bianchi?), con riguardo opere e reperti trafugati da tempo e che andrebbero semplicemente (si fa per dire, sic!) recuperati, ma non ci occupiamo dei cosiddetti “paradisi normativi” dove operano sistematicamente le organizzazioni criminali. In proposito sono illuminanti le parole del Procuratore Gratteri sul fronte del riciclaggio, che lava denaro sporco su tutti i fronti, alimentati dal traffico di droga, armi ma anche da arte e cultura, con modalità fuori dal mercato: sono emblematici i casi della City londinese e dell’Austria.
Il problema è di portata internazionale, per cui è necessario attivare idonee modalità di contrasto, atteso che l’Europa ha di fatto un ruolo marginale rispetto a realtà come gli USA, la Cina, l’India e alcuni stati arabi: il peso della finanza e delle società multinazionali è sempre maggiore e va di pari passo con la capacità di queste organizzazioni di influenzare la politica.

Lo scenario non è idilliaco e l’approccio olistico è ben lungi dall’essere attuato.
Provocatoriamente, mi viene da dire che la maggior parte delle agenzie di cooperazione internazionale sul fronte investigativo e giudiziario sono altrove, nessuna in Italia: come mai?
Non ho una risposta, semmai altri interrogativi, perfino inquietanti, se penso alla capacità imprenditoriale criminale della ‘ndrangheta che opera in tutti i continenti e in ogni settore delle attività umane. Guardiamo oltre, verso il cielo stellato e speriamo. Finisce spesso se non sempre così: l’escatologia della cultura, non me ne vogliano i semplici, i puri.

Prendiamola dunque con filosofia, con ironia? Sarà un caso che proprio in quel di Napoli abbiano installato “…na’ cosa grande” che più che a Pulcinella fa pensare a qualcos’altro (agli archetipi junghiani intrisi da suggestioni freudiane), su cui in troppi hanno sorriso sguaiatamente, forse nel tentativo di esorcizzare nefasti presagi e scenari, dove l’orizzonte di dirittura di questo totem osceno potrebbe diventare orizzontale, in una [retro]prospettiva sibillinamente retta.

Anche chi scrive si accinge, tra resilienza e sostenibilità, si passi la provocazione, ad aderire alla “nouvelle vague” della cultura nazionale, dopotutto il francese (di origini neolatine come l’italiano) è la lingua delle istituzioni culturali, UNESCO in testa, non è quella dei padri (?), che ormai sembra interessare solo opportunisti demagoghi e impettiti imbonitori che hanno messo le marsine e gli orpelli faleristici in naftalina, per tramutarsi in capi popolo, in “novelli masanielli.”

Sic transit gloria mundi e Takeo salvaci tu!

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