Mentre all’Università Sapienza di Roma, con il convegno I musei e la cultura della legalità, si celebrava la Giornata internazionale contro il traffico illecito dei beni culturali, usciva sugli schermi cinematografici italiani il film-documentario Dahomey, della regista franco-senegalese Mati Diop.
Dahomey è il nome del Regno africano, nel territorio dell’odierno Benin, che dall’inizio del XVII secolo al 1904 fu una potenza guerriera della costa atlantica dell’Africa, e un punto di snodo centrale per gli europei nella tratta degli schiavi. La sua storia proseguì con la conquista coloniale ad opera della Francia, fino all’indipendenza nel 1960.
Durante il periodo coloniale, il territorio dell’ex Regno di Dahomey, come quelli limitrofi, è stato spogliato di una parte enorme dei suoi tesori dalle potenze colonizzatrici europee; ma nel 2016, primo paese dell’area subsahariana ad avanzare una simile istanza, il Benin chiese la restituzione dei manufatti del Dahomay alla Francia di Macron, che dopo aver commissionato uno studio e varato una legge ad hoc, cominciò a metterla in atto nel 2021.
Il film documenta quella prima (e finora unica) restituzione – 26 pezzi del tesoro del re Béhanzin, l’ultimo sovrano del Regno, rubate nel 1892 durante il sacco del palazzo di Abomey – la loro partenza dal Musée du quai Branly, l’arrivo in Benin, la sistemazione nel palazzo reale, il dibattito che questo evento, vissuto come epocale, suscita nella popolazione che si vede restituire i suoi antenati, di cui le generazioni più giovani neppure immaginavano l’esistenza.
Niente è scontato: a partire dalla restituzione, che nella popolazione alcuni vedono come un affronto (“Ci hanno rubato settemila oggetti e ce ne restituiscono ventisei?”), altri come una manovra esclusivamente politica, volta a captare il consenso sia nel paese ex colonizzatore che in quello beneficiato. Soprattutto non è scontato, nel documentario, il punto di vista della narrazione, che è sorprendentemente quello di una delle sculture, che entra in scena, altera nella sua regalità dissacrata, come “numero 26”, denunciando la spersonalizzazione, un’aggiunta offensiva all’alienazione dell’esilio, simboleggiata dall’oscurità. Una volta emerso dal buio della cassa e avvolto dai suoni della ritrovata terra d’origine, “numero 26” si rivelerà come Ghezo, il maggiore tra i re del passato.
La potenza del film, avvincente perché coinvolgente negli interrogativi che pone – che si pone Ghezo per primo – sta proprio in questa incarnazione di legno e di ferro, nella sua voce che risuona dalla profondità del tempo, nella scoperta (per lo spettatore) di una possibile natura di soggetto agente, oltre che di oggetto agito, del bene conteso. Possiamo leggerla come una vera e propria materializzazione di quell’identità sottratta che forse troppo spesso, mentre i professionisti discutono di razzie e di nòstoi, per troppi rischia di rimanere un concetto astratto.
Un’identità, sembrano dire alcuni partecipanti alla discussione nel documentario, che s’innesta su un’aura di sacralità: sarà il museo, sia pure quello nella terra d’origine, luogo adatto a favorirne la percezione? Lo sarà, sembra suggerire la regia, purché si attivi la relazione con gli spettatori, che di quegli antenati sono i discendenti, e sui volti dei quali è puntata la telecamera per gran parte del tempo, nell’intento di restituirci, come già detto, il punto di vista dell’oggetto osservato.
L’iniziale accostamento del film al convegno su musei e legalità non è casuale. I due eventi, infatti, possono essere letti in parallelo, entrare in dialogo, proprio grazie al ribaltamento del punto di vista.
Le parole chiave di questo dialogo sono recupero, restituzione e, dall’altra parte, riparazione: concetti meramente materiali i primi, ma bisognosi del secondo per ricucire un rapporto col territorio di provenienza; e poi contesto – sempre perduto nella razzia, ma forse recuperabile nella dimensione della provenance research: infatti questa, nell’ambito del convegno, è stata presentata come strumento fondamentale, volto sì a ricostruire un percorso passato, ma altrettanto valido per un racconto dell’oggi, nell’ambito dell’azione di valorizzazione dei reperti recuperati.
Così il dibattito dei giovani del Benin, che a fronte di quel patrimonio ritrovato s’interrogano sulla loro identità fino ad allora improntata a un modello estraneo, francesizzata, riecheggia specularmente in quello degli operatori museali occidentali, che a fronte dei Nòstoi si fanno carico di attivare una nuova consapevolezza dei valori, sia identitari che ispirati alla cultura della legalità, nel territorio da cui quelli erano stati razziati.
E ancora, tra le parole-chiave, spicca decolonizzazione, parola d’ordine recente, che deve però necessariamente accompagnarsi a un’altra, etica, per non svuotarsi di significato. Quell’etica museale oggi imprescindibile, sviluppatasi a partire dagli anni Duemila dalle riflessioni delle istituzioni più consapevoli, prima fra tutte l’ICOM.
Il bellissimo film di Mati Diop, e il più che opportuno convegno su Musei e cultura della legalità ci aiutano a mettere a fuoco questi concetti, e a riflettere su come declinarli nella pratica corrente delle professioni dell’arte.