Nessun borsalino, nessuna frusta o pistola. Lord Colin Renfrew ci ha lasciato

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L’Inghilterra si aspetta che ogni uomo faccia il suo dovere
(Lord Horatio Nelson)

Colin Renfrew è stato un archeologo la cui fama ha varcato i confini albionici, senza intenti bellici o imperialistici. In particolare sono noti i suoi studi inerenti la terra di origine dei protoindoeuropei, in contrapposizione alla teoria secondo la quale essi sarebbero stati invece attivi, tra il VI e VII millennio a.C., nella regione anatolica, da dove sarebbe principiata e diffusa la loro influenza in Europa, parallelamente all’espansione e allo sviluppo agricolo che ha caratterizzato il Neolitico.

Colin Renfrew (1937-2024) (Foto: British School at Athens).

Dopo aver completato gli studi nello Hertfordshire, ha prestato servizio militare, per due anni, nella Royal Air Force, esperienza al termine della quale è stato ammesso alla frequenza dei corsi di Antropologia e Archeologia al St John’s College di Cambridge: qui ha conseguito dapprima la laurea e, in seguito, il dottorato di ricerca con una tesi su Le culture neolitiche e dell’Età del bronzo delle Cicladi e le loro relazioni esterne. In seguito, ha ricoperto il ruolo di ricercatore presso il dipartimento di Preistoria e Archeologia dell’Università di Sheffield e, tra il 1968 e il 1970, è stato responsabile di campagne di scavo sul sito di Sitagroi, in Grecia. Nel 1972 ha ottenuto la cattedra di Archeologia presso l’Università di Southampton, occupandosi, tra altre attività, anche di indagini archeologiche nelle Isole Orcadi, a Milo e nuovamente Sitagroi, in collaborazione con l’UCLA. Dal 1981 e fino al 2001, ha insegnato archeologia all’Università di Cambridge. A partire dal 1990 è stato il direttore dell’Istituto di Ricerca archeologica “McDonald” e dal 2004, il presidente del consiglio direttivo della British School di Atene.

In quasi cinquant’anni di attività accademica, vanta oltre novanta pubblicazioni in materia di archeologia e preistoria. Un curriculum di tutto rispetto, strutturatosi oltremanica dove, come direbbe con garbo, non disgiunto dalla tipica ironia anglosassone, il caro e compianto Prof. Andrew Martin Garvey Esq. (1960-2017), nessuno ti regala niente e soprattutto, ad fortiori, da buon tradizionalista “never complain, never explain”.

Renfrew è stato un autore molto conosciuto e studiato. Il suo manuale, scritto con Bahn-De Marrais, è arrivato alla nona edizione ed è stato certamente il testo sul quale si sono formati gli archeologi anglosassoni. Ma il suo contributo di ricerca va oltre, si intreccia con preistoria, la genetica, con l’impegno nel contrasto al saccheggio dei siti archeologici, anche al di fuori della nazione di origine, in particolare di quelli a lui cari, dove aveva condotto varie campagne di scavo. I suoi colleghi, anche quelli delle generazioni successive, gli hanno riconosciuto il primato di essere stato antesignano nello strutturare quella che è stata inquadrata come “archeologia cognitiva” e nello sviluppare i cosiddetti “cross-sectional studies”, un approccio inedito a livello scientifico-metodologico nell’ambito delle discipline archeologiche.

Molti si domanderanno che cos’è l’archeologia cognitiva. In estrema sintesi si tratta di una disciplina che, di matrice archeologica, pone un focus di osservazione metodologico-scientifico sulle ideologie e il simbolismo delle civiltà antiche e il connesso influsso che questi due aspetti hanno generato sui processi di sviluppo, in termini sociali, delle genti del passato. Una visione operativa, quindi, al di là della semplice ricerca archeologica, in quanto sviluppa approfondimenti e valutazioni intorno al contesto archeologico differenti da quelli più ortodossi, afferenti ad esempio i reperti, o il singolo reperto, e che si pongono l’obiettivo di interpretare, su vari livelli, fattori difficilmente comprensibili e spiegabili nell’attualità, se non correttamente contestualizzati nel luogo, nel tempo e nelle pratiche e tradizioni culturali di riferimento. Una visione articolata, che incentiva gli studi multi disciplinari e che pone l’accento sulla dimensione umana delle dinamiche culturali. Superfluo dire come ciò abbia sollevato critiche e scuole di pensiero diametralmente opposte, ma dopotutto il dibattito scientifico dovrebbe essere il sale della scienza stessa.

Al di là di questo aspetto, forse un po’ troppo tecnico, ve n’è un altro che certamente interesserà particolarmente i nostri lettori, essendo strettamente coerente con le tematiche del JCHC. Renfrew è stato un convinto propugnatore del contrasto al traffico illecito e al danneggiamento dei beni archeologici, evidenziando come i livelli di responsabilità, riguardo lo specifico fenomeno, siano molteplici, non risparmiando perfino il mondo accademico da dove lui stesso proveniva, attirandosi per questo non pochi attacchi e una generale disapprovazione.

Nel suo testo più noto sull’argomento, Loot, Legitimacy and Ownership: The Ethical Crisis in Archaeology, ha trattato in maniera approfondita del saccheggio di siti, della distruzione dei contesti di provenienza dei reperti e delle dinamiche di mercato in cui si muovono non solo collezionisti e mercanti senza scrupoli ma anche responsabili di istituzioni museali noncuranti della provenienza, non lecita, degli oggetti acquisiti. Punta il dito su Londra, indicandola come uno fra i centri internazionali più coinvolti in questi traffici illeciti.

Avendo narrato della crisi etica dell’archeologia, a distanza di un quarto di secolo dalla pubblicazione del libro è dunque corretto chiedersi: che cosa è cambiato? Qualcosa probabilmente è migliorato, ma ci vorrebbero oggi più personaggi del calibro di Lord Renfrew, capaci e connotati di schietta autorevolezza, lontani da ogni forma di autoreferenzialità e interessata ipocrisia, in grado di illuminare il cammino della conoscenza e della tutela della cultura, verso un orizzonte sempre più complesso e globalizzato.

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