Luigi Serafini, la casa-studio sotto sfratto, Vittorio Sgarbi e quel pasticciaccio al Mart
Provvidenza e serendipità hanno lastricato la vita dell’artista che nei prossimi mesi potrebbe perdere il suo l’atelier romano: il Ministero della Cultura apporrà il vincolo? Siamo andati a incontrarlo a Roma (e a Milano)
Architetto, designer, pittore, scultore, ceramista, autore, scenografo, Luigi Serafini (Roma, 1949) è conosciuto ai più per essere l’inventore del Codex Seraphinianus, l’enciclopedia del vivente e dell’immaginato, un’opera perfettamente in equilibrio tra surrealismo, antispecismo e alfabeto onirico.
Il “Seraphinianus” è stato disegnato e scritto da un amanuense di oggi, in una stanza di Roma, dal 1976 al 1978. Mia prima intenzione era di proporne una glossa a scrittori condegni, da Borges a Calvino, ma mi avvidi che sarebbe stato un errore introdurre spiegazioni in un’opera di indole enciclopedica, nata essa stessa per spiegare. Espugnato un convento, e soddisfatti i bisogni primari di cibo e di saccheggio, qualche Unno o altro barbaro ignorante di alfabeti sarà certo penetrato sino alla Biblioteca, e là avrà sfogliato con meraviglia un codice miniato. Vorrei che il lettore sfogliasse il “Codex Seraphinianus” come quel guerriero; oppure come un bimbo che ancora non ha appreso la lettura, ma che gioisce dei sogni e delle fantasie che le immagini gli suggeriscono.
Franco Maria Ricci
Il successo è immediato. La prima edizione, partorita nel 1981 dal torchio dorato di FMR, rende il Codex un feticcio per i bibliofili di mezzo mondo alla ricerca dell’utopia e delle sue manifestazioni. Ne esiste anche una versione cinese, falsa, che però non sembra aver offeso Serafini, anzi, ne parla di gusto… Aprire parentesi, perdere il filo, ripartire con una suggestione, chiudere su un ricordo e ritrovarsi al punto di partenza, è il tipico andamento delle conversazioni con Luigi Serafini, e in parte è la dinamica che si riflette anche nella pianta ad anello della sua casa romana, un’amaca sospesa tra il Pantheon, la fantasia e la Chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza. Il terzo piano, a gradini alti e senza ascensore, è il deterrente collaudato per tenere alla larga malintenzionati e scocciatori. E se i corrieri sbuffano, i curiosi arrancano, i volenterosi saltellano. D’altronde non poteva mancare un metaforico denario per accedere alla Domus Seraphiniana, una wunderkammer accesa e vibrante di contrasti cromatici, incrostata di oggetti e di design, di libri e di cimeli, di colori, pennelli, tele e cavalletti, abitata da animali e personaggi assurdi e iperreali che sembrano, da un momento all’altro, potersi animare di vita propria: forse al buio qualcosa succede per davvero. L’ingresso è «un mini Mart» – Serafini allude sornione alla mostra monografica che si è conclusa a Rovereto questo autunno -, è una sala quadrata, a cementine nere e bordeaux, che ospita una piccola esposizione ontologica di tecniche ed epoche diverse, che si congiunge alla libreria e alle postazioni da lavoro. È il 1987 quando Serafini affitta questo appartamento: «è cambiato tutto, un’altra epoca, il Giubileo del 2020 ha spalancato le porte all’overtourism e all’overpilgrimage, ma il casino, in modi diversi, c’è stato sempre perché i romani sacralizzavano ogni posto, ogni pietra. Quando arrivai l’immobile era stato da poco ceduto al Sovrano Militare Ordine di Malta, tant’è che era in corso una causa con gli eredi del defunto donatore». Un’amica comune, il passaparola, nessuna raccomandazione, ottenere un regolare contratto in quegli anni è facile: il centro storico non è ostaggio della pressione turistica e non è così strozzato dalla spregiudicatezza speculativa. «Il pavimento della cucina e del salotto erano sfondati, il solaio era una culla, era tutto da sistemare». I lavori partono dalla cucina, il primo nucleo della casa, e si irradiano negli altri ambienti. Colori, oggetti, progetti e anni si stratificano andando a comporre l’attuale definizione, quella finale, ma solo per stanchezza.
Iniziamo dal suo rapporto con Vittorio Sgarbi.
«Con Vittorio ci conosciamo dal 1981, quando era ancora Vittorio, poi è entrato nel tubo catodico ed è diventato Sgarbi, e le nostre strade si sono un po’ divise. L’ho sempre stimato perché ne ho conosciuto l’intelligenza in una fase appunto pre televisiva e pre mediatica. Scrisse il primo saggio sul Codex, che fu presentato a Palazzo Grassi a Venezia nel 1981, Vittorio all’epoca lavorava con Franco Maria Ricci alla nascita della rivista FMR. Rimasi folgorato dalla sua scrittura e dal fatto che aveva capito molte cose del mio lavoro e dei libri che leggevo. Poi c’è stato il Maurizio Costanzo Show e da quel momento è cominciata un’altra storia che lo ha coinvolto anche recentemente nelle vicende dei quadri. Vittorio è cambiato quando ha capito che facendo spettacolo poteva fare politica. Ho avuto due momenti di grande tensione con lui, nel 2011 e nel 2019 dopo che mi venne restituita, a conclusione di una sua mostra itinerante (Il Museo della Follia, ndr) durata 3 anni, un’opera in cartapesta e terracotta danneggiata, piegata a 45°. Il mio giudizio intellettuale su Vittorio non è cambiato, anche se di stronzate ne ha fatte chissà quante, però questa del falso e della copia è un fatto incredibile e molto interessante».
Oltre al Codex, le sue opere sono mai state falsificate?
«Due anni fa mi telefona una persona di Cambi (casa d’aste con sedi a Genova, Milano e Roma, ndr) e mi dice: “Ho un candeliere e mi sembra tuo”. Per un certo periodo ho lavorato direttamente in fornace con i maestri di Murano e ho realizzato, fondendo le parti e non incollandole, una serie di complementi d’arredo, candelabri, vasi, piatti da portata e altro per Artemide e per Memphis Extra (successiva evoluzione del collettivo italiano di designer e architetti fondato da Ettore Sottsass, attivo tra il 1981 e il 1988, ndr). Un mio progetto è stato usato per produrre delle copie, che sono state attribuite a Sottsass per aumentarne l’interesse sul mercato. Poi, una cosa curiosa di tantissimi anni fa: è comparso in rete un disegno, una figura un po’ caricaturale del Codex, che non so da dove provenisse. In qualche modo è entrato tra i disegni del Codex e il falso è stato spesso pubblicato per presentare il libro. Una cosa divertente».
Com’è nato Il sogno di Luigi Serafini al Mart?
«L’esposizione al Mart nasce da questa amicizia antica, e complicata, che di tanto in tanto si ricrea. Poi succede sempre qualcosa che non va, come a Rovereto. La mostra doveva inaugurare a giugno, poi è slittata all’11 luglio perché Surrealismi – che doveva essere uno spin off – si è gonfiata andando a togliermi anche dello spazio. Un pasticcio. Ho dovuto combattere per avere un titolo “aperto”, non storicizzato. E poi la mancanza di promozione: il primo comunicato l’ho scritto io l’8 settembre al New York Times perché non mi era sembrato di vedere articoli e recensioni, forse qualcosa su Artribune. La mostra ha avuto un crescendo di pubblico solo grazie al passaparola. Su Instagram mi sono arrivate decine, forse centinaia, di messaggi di ringraziamento e di richieste da scuole di Milano e Verona che non hanno potuto organizzare la visita. Ho scritto a Denis Isaia (curatore del Mart, ndr) e al vicepresidente (Silvio Cattani, ndr) proponendo una proroga. Non si poteva fare, ma Arte e Fascismo era stata prolungata! Vittorio non mi ha risposto. La richiesta c’era e mi dispiace che una mostra, fatta in un posto così bello, unico in Europa, sia stata vittima della mannaia del 20 ottobre. “Avete trasformato una mostra top in una mostra toppa”, ho detto, perché questo è quello che è successo. Mi sono sentito danneggiato».
Nel 2024 l’unità di ricerca Imago rerum dell’Università Iuav di Venezia ha avviato un progetto di ricerca sulla casa-atelier di Serafini, attraverso il rilievo scientifico dell’intero appartamento e degli oggetti (d’arredo e artistici) che lo compongono e decorano. Il fine è dare vita a un clone digitale in grado di documentare fedelmente la vita interiore dello spazio della casa-atelier intrisa e segnata dalla creatività e personalità dell’artista, nonché di ricreare un luogo da esplorare virtualmente indipendentemente da quale sarà la sorte di una delle opere capitali della produzione di Serafini e della creatività contemporanea.
Mart
Con tutti i suoi limiti, la mostra di Rovereto ha però avuto il merito di presentare il progetto di digitalizzazione della casa, a cura dell’Università Iuav di Venezia, affinché in futuro almeno ne rimanga memoria.
«Tre anni fa non avrei mai immaginato che questa casa potesse finire sui giornali, tantomeno che potesse essere scannerizzata e trasformata in 3D. Si è verificata una concatenazione di eventi, avvenuti in modo assolutamente naturale. Entro nel 1987, fatti i primi lavori, comincio – come credo qualsiasi persona – a trasformare lo spazio. La manutenzione del palazzo era a zero e a mie spese ho fatto ridipingere il vano scale che aveva una illuminazione crepuscolare. Nel 2002 qui ancora non c’era l’acqua diretta, c’erano i cassoni in eternit, che da dieci anni era fuorilegge: ho dovuto far intervenire un legale. A un certo punto crolla un controsoffitto per una perdita di acqua al piano di sopra, cerco una persona per fare i lavori e alcuni amici mi segnalano un ragazzo macedone, un ingegnere bravissimo, e in quattro anni ricostruiamo e ridipingiamo tutto. L’appartamento viene fuori così, ma non so neanche perché. Non c’era un progetto. Nel 2010 mi arriva una disdetta da parte dell’Ordine di Malta, io avevo il contratto più antico (insieme a Serafini resiste solo una famiglia, gli altri residenti via via hanno mollato e se ne sono andati altrove, ndr), e comincio a pagare una indennità di occupazione. Senza contratto. Nel 2018, dopo 8 anni, smetto di pagare il canone: pretendo il contratto. Non si fa vedere né sentire nessuno. Ignorato totalmente. Poi arriva il Covid. Tra il 2021 e il 2022 riesco a stabilire un contatto con il Luogotenente di Gran Maestro, Fra’ Marco Luzzago, che si dimostra una persona sensibile. Troviamo un accordo, che sana il pregresso, con a garanzia alcuni miei lavori (periziati a metà del loro valore, ndr). Il 7 giugno 2022 Luzzago muore improvvisamente e da lì si crea un vuoto. Non riesco più a ottenere risposte, tutto viene sempre rimandato. Nel frattempo si formalizza lo sfratto, l’ho impugnato e una ordinanza del Tribunale di Appello di Roma l’ha congelato fino alla fine di gennaio 2025. Con i miei legali stiamo cercando di raccogliere la documentazione affinché il Ministero della Cultura apponga il vincolo di casa d’artista. Sarebbe il primo caso perché una casa d’artista con l’artista vivente dentro è un unicum: vediamo cosa succede perché nel Codice dei Beni Culturali il vivente non è contemplato, però il vivente potrebbe diventare il custode».
Ha mai pensato di acquistare l’appartamento e di rendersi libero dall’Ordine di Malta?
«No, sono arrivate voci che si voglia trasformare tutto il palazzo in un hotel di lusso. Evidentemente sono d’intralcio. L’Ordine sta svuotando, sono mesi che l’immobile è vuoto, altrimenti avrebbe riaffittato. Alcuni dicono sia stato ceduto a un fondo, l’unica cosa sicura è che il Senato della Repubblica in questo progetto non c’entra nulla: il muro della libreria confina con Palazzo Giustiniani. L’atteggiamento dell’Ordine di Malta è sempre stato di disprezzo, nessuno è mai venuto a vedere, non c’è mai stato alcun interesse per l’aspetto culturale. La Corte di Appello ha sospeso lo sfratto “per motivi estetico-culturali che devono essere tutelati”. Sono stati qui la soprintendente Daniela Porro e Alessandro Giuli, quando ancora era presidente della Fondazione MAXXI, dopo la presentazione del libro di Carlos D’Ercole, Casa come Me, che si è tenuta proprio al MAXXI».
E la vicenda personale è diventata pubblica.
«Da quel libro sono cominciati gli articoli e i servizi su tutti i media nazionali e pure su quelli esteri, e poi è arrivata la mostra al Macro, Una casa ontologica. L’interesse e l’affetto sono lievitati. Indipendentemente dal viverci, che nei momenti di maggiore flusso turistico è un infermo, la lotta non è tanto per la residenza quanto per il mantenimento di questo posto».
Se il vincolo non dovesse “andare a segno”, c’è un piano B, almeno per gli oggetti mobili?
«Ho un altro studio a Milano. E per gli oggetti mobili ci sono le aste: sono stato contattato da una casa d’aste francese. In Francia sono molto seguito e là una vicenda così non sarebbe mai successa».
Che rapporto ha con le gallerie?
«Non ho una frequentazione. Non sono mai riuscito a trovare un gallerista che non sia un venditore di tappeti o di articoli per la casa. Ho avuto qualche sparuto intreccio, è intervenuta la provvidenza. Il sistema dell’arte che cos’è? Le gallerie che cosa sono? Sono veramente diventate dei luoghi orribili. Anche per questo provo tristezza per com’è andata a finire con Rovereto: una mostra toppa che si è inserita in un buco di calendario per colpa di Sgarbi. Avrei preferito non farla, piuttosto di farla in questo modo e così male (tra l’altro due opere sono state danneggiate: Vietato vietare in corso di allestimento e Minotango in fase di disallestimento, entrambe sono state inviate a Firenze per il restauro, ndr). Mi è dispiaciuto veramente, non per me, ma per chi non ha potuto vederla».
Al netto dei retroscena, è stata una bella mostra.
«Lo so, e questo grazie al Mart, alle sue maestranze e a Francesca Velardita (registrar & collection manager del Mart, ndr). Sono stato là dieci giorni a parziali mie spese, non c’era un curatore, ho progettato io l’allestimento, ho disegnato e composto io la mandorla della Donnacarota».
Il catalogo?
«È ancora in corso d’opera. Tra l’altro il giorno dell’apertura al bookshop mancavano anche i Codex, insomma anche a livello commerciale…».
Dunque, una mostra chiusa da tempo e il catalogo ancora in produzione?
«Deve ancora essere finito, uscirà per la metà di gennaio 2025. E per fortuna che la pubblicazione è stata sostenuta anche dalla Fondazione Silvano Toti. Se la sono presa comoda…».
Una gran figuraccia.
«Ma la figuraccia è stata soprattutto quella di avermi strumentalizzato e inserito nel momento sbagliato: questa mostra doveva essere esposta da dicembre a marzo. Tantissime opere non si erano mai viste perché sono state acquistate direttamente in studio e sono sparse in diverse collezioni private».
Ha curato il suo archivio d’artista?
«No, non ci riesco. E ho 75 anni, dovrei pensarci, no?».
E ha pensato al “dopo di me”?
«Sto cominciando, veramente. È una cosa che mi affascina perché la mia è anche una produzione letteraria che devo riuscire a mettere insieme. Ci sto pensando, davvero, e poi la sento come una cosa bella».
Nell’intervista rilasciata a Stefano Lorenzetto per il Corriere della Sera ha detto che l’arte è “una condizione umana. C’è la laurea in storia dell’arte ma non quella in arte. Io esisto solo negli occhi degli altri”. Ha paura dell’oblio?
«L’oblio non è una dimensione misurabile, pensiamo a Piero della Francesca che viene imbiancato, dimenticato e riesaltato. L’oblio è quasi inevitabile quando cambiano determinate condizioni sociali e antropologiche. Dopo vent’anni o un secolo, la moda riscopre un autore. Meglio non farsi la domanda perché non ci sono risposte all’oblio».
L’intervista a Luigi Serafini è stata registrata venerdì 15 novembre, due giorni più tardi, il 17, Il Giornale ha pubblicato Il «codice» onnisciente dell’ontologico Serafini, un pezzo a pagina intera firmato da Vittorio Sgarbi. Il sanguigno e imprevedibile presidente del Mart ha recensito ed esaltato la mostra smantellata di fretta un mese prima “di cui – fa sapere – a breve uscirà il catalogo da Silvana Editoriale”. Una bizzarria che, tenuto conto il pregresso e lo stato di fatto, è ancora più bislacca: quale interesse culturale e commerciale potrà mai avere il catalogo di una mostra in archivio e di cui purtroppo troppo pochi si ricordano?
Ciò che ancora non è in archivio è il destino dell’atelier romano di Serafini e delle decine e decine di opere che lo compongono. Otterrà il riconoscimento ministeriale o sarà tutto perso e disperso? Lo scorso 2 dicembre il presidente del Centre Pompidou di Parigi, Laurent Le Bon, ha sottoscritto e inviato un’attestazione per il riconoscimento del valore artistico, architettonico e culturale della casa studio di Luigi Serafini perché “si tratta – scrive Le Bon – di un’Opera d’Arte e di Architettura totale, progettata e realizzata dall’artista e architetto italiano Luigi Serafini nell’arco di circa quarant’anni e costituisce uno straordinario unicum nel panorama italiano e internazionale. Pertanto merita la massima tutela e salvaguardia”. Il documento fa parte del fascicolo presentato il 18 dicembre al MiC. Tarda invece ad arrivare la dichiarazione di Renata Cristina Mazzantini, direttrice della GNAMC di Roma: anche Il tempo del Futurismo ha i suoi tempi.
Dopo la laurea a Trento in Scienze dei Beni Culturali, in ambito storico-artistico, ho “deragliato” conseguendo a Milano un Perfezionamento in Scenari internazionali della criminalità organizzata, un Master in Analisi, Prevenzione e Contrasto della criminalità organizzata e della corruzione a Pisa e un Perfezionamento in Arte e diritto di nuovo a Milano. Ho frequentato un Master in scrittura creativa alla Scuola Holden di Torino. Colleziono e recensisco libri, organizzo scampagnate e viaggi a caccia di bellezza e incuria.