Il saccheggio di siti archeologici in Egitto: intervista all’egittologa Monica Hanna
L’Egitto, come ben noto, è terra ricca di fascino e con un patrimonio raro al mondo, dove i siti archeologici risplendono ancora oggi come testimonianza vivida della storia di questa straordinaria civiltà. L’archeologa Monica Hanna è nota a livello internazionale per la sua profonda conoscenza dell’Egitto e per l’impegno che da anni profonde per la tutela contro i crimini ai quali i suoi beni sono costantemente esposti. Proprio in virtù di questa sua missione, è stata insignita nel 2014 del SAFE Beacon Award, riconosciutole per gli sforzi tesi a salvare le testimonianze culturali nel contesto di conflitti armati.
Dottoressa Hanna, quanto è diffuso oggi il fenomeno criminale del saccheggio dei siti archeologici e quale impatto ha sul patrimonio culturale e sull’eredità storica dell’Egitto?
Quanto ai saccheggi, la situazione attuale è piuttosto consistente in Egitto. È leggermente migliorata rispetto al 2011 (anno della Rivoluzione, ndr), ma i saccheggi e i furti continuano, sebbene in modo più nascosto. L’attuale situazione economica e politica non ha fatto che peggiorare il fenomeno – noto come subsistence looting – dettato, per l’appunto, dall’estrema povertà in cui riversano le famiglie: i bambini continuano ad essere sfruttati per saccheggiare i siti, mentre le famiglie lottano per arrivare a fine mese.
Può entrare nel vivo di episodi significativi da lei vissuti in prima persona, definendone le dinamiche e le ripercussioni sulla tutela?
Il problema principale è che, a causa del post-colonialismo, in molte comunità egiziane manca del tutto un autentico legame di appartenenza con il proprio patrimonio culturale. Esse percepiscono il patrimonio culturale del loro paese come qualcosa che è controllato e amministrato da entità esterne (come le missioni straniere e il governo), piuttosto che dalle stesse persone del Paese. Questa gestione viene vista come parte di un sistema che non è democratico, ma piuttosto influenzato da pratiche coloniali, dove le decisioni vengono prese senza un reale coinvolgimento o controllo da parte delle comunità locali. Questa situazione complessa ha determinato una generale apatia e ha fatto sì che la comunità non abbia sviluppato un senso di proprietà rispetto alla propria eredità culturale. Nei saccheggiatori che depredano i beni non vi è legame alcuno con il sito archeologico e con la storia. Peraltro, la maggior parte dei libri riguardanti il patrimonio culturale dell’Egitto è scritta in lingue non conosciute dagli egiziani (inglese, francese, tedesco e italiano): questa mancanza di accesso alla conoscenza crea un distacco così profondo che il saccheggio riempie questo vuoto attraverso un altro tipo di appropriazione. Si è affermata l’errata convinzione secondo la quale il governo e le missioni straniere traggono profitto dai siti, a differenza delle comunità; quindi, chi saccheggia ritiene che sia l’unico modo per trarne vantaggio.
Quali sfide esistono nel proteggere efficacemente i reperti archeologici dell’Egitto dal saccheggio e come possono essere affrontate?
Il vero problema è che la polizia in Egitto non è specializzata nei crimini legati al patrimonio, come il Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale in Italia. Gli agenti della Polizia del Turismo e delle Antichità non appartengono a un’unità stabile e specializzata, ma vengono assegnati a turno a diverse sezioni o divisioni della polizia. Questa carenza di competenza adeguata è aggravata dai livelli estremi di corruzione e dal Ministero del Turismo e delle Antichità, ove molti membri del personale sono stati recentemente perseguiti per il loro coinvolgimento in furti e per il supporto prestato ai tombaroli. La situazione è realmente preoccupante e l’attuale stasi politica rende difficile apportare modifiche istituzionali all’interno della forza di polizia o del Ministero, che potrebbero eventualmente contribuire a ridurre il crimine legato al saccheggio. Purtroppo, non esistono progetti o attività che coinvolgano le comunità locali nel preservare e valorizzare il patrimonio archeologico, né azioni che incoraggino la partecipazione pubblica. L’assenza di queste iniziative fa sì che non vengano adottate soluzioni per affrontare la povertà nelle zone più svantaggiate e fermare tali furti.
Il fenomeno del saccheggio, nella sua entità, è percepito dalla popolazione? Se sì, in quale misura?
Sì, abbastanza. La convinzione di potersi arricchire rapidamente, trovando beni archeologici, è profondamente radicata nella cultura e nel folklore delle comunità egizie. Emblematico è il caso che ha visto coinvolto l’uomo di affari Hassan Rateb, che sta scontando una pena detentiva per traffico illecito di reperti. Le fiction, poi, trasmesse durante il mese sacro del Ramadan, ruotano spesso attorno al tema del saccheggio e delle testimonianze culturali, contribuendo a rafforzare questa narrazione. Peraltro, ogniqualvolta che mi capita di parlare della mia professione, ad esempio quando salgo su un taxi, mi sono spesso imbattuta in conducenti che mi hanno raccontato storie di parenti o di vicini che si sono arricchiti trovando reperti, o che si sono impoveriti, spendendo tutti i risparmi nel tentativo di rinvenirli. Queste storie, inoltre, si intrecciano talvolta con leggende di magia nera, combinando elementi di folklore, mitologia e superstizione, che vengono frequentemente discusse e tramandate, in particolare nelle comunità rurali.
La sua esperienza dimostra come notevoli sono stati i progressivi nelle tecnologie e nelle metodologie utilizzate per monitorare e recuperare reperti archeologici razziati. Può dirci di più?
Le immagini satellitari e l’uso di Google Earth sono strumenti molto utili per monitorare i saccheggi nei siti archeologici e per identificare i compratori che cercano di vendere beni trafugati. Ad esempio, un sarcofago, acquisito in buona fede dal Metropolitan Museum, era stato mostrato in un video dai tombaroli. Sebbene ciò aiuti nel recupero dei beni, purtroppo piattaforme come Facebook e eBay continuano a consentire la vendita illegale di reperti archeologici, senza concretizzare alcun tipo di controllo. Questo contribuisce alla crescita del mercato illecito, che prospera grazie all’uso di queste piattaforme online.
Quanto ritiene influisca il ruolo di collezionisti, musei e istituzioni private nel contrasto al traffico illecito di beni provenienti dai siti saccheggiati in Egitto?
I musei hanno avuto un ruolo importante nell’incoraggiare o facilitare i saccheggi e i furti di beni culturali. Nel XIX e XX secolo alcuni musei hanno costituito collezioni, acquisendo beni senza conoscere la loro provenienza o da mercanti, creando una sorta di consenso, cioè una visione condivisa, secondo cui il commercio di reperti e testimonianze archeologiche non è intrinsecamente immorale. I musei non sono entità imparziali o neutre: non di rado mostrano beni provenienti da altre culture, spesso definite “l’altro”, cioè culture diverse da quella occidentale. Questo concetto si rifà agli studi di Edward Said. Difatti, i musei, nel modo in cui espongono e interpretano gli oggetti provenienti da culture “altre”, continuano a esercitare un “potere culturale”, cioè una forma di dominio o influenza sulla percezione di queste culture da parte del pubblico. Il bene museale diventa così simbolo non solo di un patrimonio culturale, ma anche di un potere che chi lo possiede (spesso un museo occidentale) esercita sulla cultura da cui proviene. Questo potere, inteso nella prospettiva foucaultiana, non è solo simbolico, ma ha anche un valore economico e sociale, poiché i beni esposti nei musei arrecano denaro e prestigio. Il meccanismo del museo occidentale che trae prestigio dai reperti egizi viene replicato dai collezionisti privati. Essi cercano lo stesso prestigio, appropriandosi individualmente di un frammento di quel potere culturale. I musei devono rendersi conto come una collezione costituita da opere trafugate sia immorale. Pertanto, dovrebbero rivedere le loro collezioni e i cataloghi per identificare gli oggetti che provengono da saccheggi o traffici illeciti. Inoltre, dovrebbero avviare un dialogo pubblico sulla restituzione e sul rimpatrio, nonché promuovere pratiche trasparenti e responsabili, affinché l’acquisizione di opere di dubbia provenienza diventi socialmente e culturalmente inaccettabile, similmente a come è percepito l’acquisto dei diamanti insanguinati. Musei come il Metropolitan hanno acquistato beni accompagnati da attestati che ne falsificavano la provenienza o la legittimità dell’acquisizione. Inoltre, si segnala la pratica, diffusa, di negligenza o addirittura connivenza da parte di molti musei, che tendono ad ignorare o minimizzare i sospetti riguardo ad opere con certificati di provenienza poco chiari. Per fermare questa pratica, è necessario cambiare radicalmente la visione sulla concezione della funzione assolta dal museo nel XXI secolo. Invece di essere considerati, in modo riduttivo, come gabinetti delle curiosità, ove i beni sono esposti senza una riflessione critica sul loro contesto e sulla loro provenienza, tutti i musei dovrebbero evolversi in vere e proprie infrastrutture sociali, capaci di supportare la società nel relazionarsi con la cultura in modo etico. Non possiamo cambiare il passato ma, attraverso restituzioni e rimpatri, possiamo sicuramente limitarne i risvolti negativi.
Secondo lei, come possono individui, organizzazioni e governi cooperare per prevenire il saccheggio e il traffico di reperti archeologici?
Il saccheggio è tra i crimini ove, a livello globale, si ricorre sistematicamente al riciclaggio di denaro, come, peraltro, è già risaputo con riferimento alle criptovalute. Devono esserci organismi preposti che si formino e agiscano con consapevolezza avverso i crimini contro il patrimonio culturale. Non si può dimenticare come le organizzazioni terroristiche siano tra i principali responsabili del traffico illecito di reperti archeologici in Medio Oriente e in Africa. Smantellarle significherebbe contribuire in modo significativo alla lotta contro un crimine che affligge l’intero pianeta.
Esiste una frattura evidente tra gli egiziani e il loro passato. Per colmarlo, è necessario avviare concreti progetti di sviluppo, capaci di far riscoprire in tutte le comunità il legame con la propria storia e di evidenziarne i riflessi affettivi ed economico-sociali. Tali iniziative debbono coinvolgere le comunità locali per dar vita a modelli operativi per le industrie culturali, creative e che si occupano di ospitalità, e per la preservazione dell’artigianato locale. Tali progetti, inoltre, dovrebbero edificare nelle comunità l’identità sul passato, facendo loro comprendere come l’archeologia non sia una caccia al tesoro, ma un’analisi sistematica e rigorosa di ciò che viene rinvenuto, finalizzata a costruire una visione scientifica del passato.
I media, che parlano di “scoperte”, “oro”, “segreti” e “mummie” per attirare l’attenzione del pubblico, debbono dismettere l’utilizzo di questo linguaggio e lavorare, invece, su documentari, realizzati in chiave scientifica ed etica, che spieghino il passato in modo approfondito e non sensazionalistico.
Dottoressa in Scienze dei servizi giuridici