La terra degli avi. Donazione di un terreno dal potenziale archeologico: succede a Canosa

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[I Nani] hanno scavato troppo a fondo e con troppa avidità. Sai cos’hanno risvegliato nell’oscurità di Khazad-dûm? Ombra e fiamme

(Dal film Il Signore degli Anelli. La compagnia dell’anello)

Canosa è tra le più celebri città pugliesi dove l’archeologia imperversa nel bene ma anche nel male, come ci ricordano purtroppo fatti di cronaca più o meno recenti.

Le importanti e diffuse testimonianze archeologiche canosine promanano dal Neolitico, riguardano le civiltà dei Dauni, della Magna Grecia e di Roma antica di cui fu Colonia Aurelia Augusta Pia Canusium (344 d.C. sotto l’impero di Antonino Pio). Una fama anche legata alla produzione di manufatti archeologici di assoluto pregio: chi non conosce i vasi canosini di epoca ellenistica?
Le forme particolari di amphoriskoi, askoi, oinochoai e kántharoi con le loro colorazioni su fondo bianco e decorazioni plastiche tipiche: teste equine, eroti e gorgoni. Ve ne sono sparsi in tutti i musei più importanti del mondo, dal British Museum al Louvre di Parigi, giusto per citarne alcuni.

Uno tra i bacini di scavo di questi importanti reperti è rappresentato dagli ipogei Lagrasta, ubicati nel centro dell’abitato canosino. Un complesso caratterizzato da monumenti e aree sepolcrali che, della cultura dei Dauni, sono scavati nel tufo e risalgono al IV – III secolo a. C. Questa necropoli stratificata è frutto di una scoperta fortuita risalente al 1843, condotta da Vito Lagrasta che era il proprietario del fondo. Gli scavi sono stati condotti in varie epoche e con diverse modalità, fino al 1902, anno in cui venne alla luce il terzo ipogeo. L’intera area è stata sottoposta a vincolo archeologico nel 1973 e nel 1977, probabilmente anche per proteggerla dalla martellante azione dei tombaroli che, nella zona e nelle aree limitrofe, hanno scavato illecitamente per anni.

Non si vuole, in questa occasione, trattare dell’odioso fenomeno degli scavi clandestini, seppur in alcune aree del tavoliere pugliese rappresenti tuttora un zoccolo duro che pare non sfaldarsi del tutto nonostante i pressanti controlli e le indagini e, anche, grazie a una matura sensibilità degli abitanti.
È proprio su questo specifico filone che pare innestarsi la donazione di un terreno, di proprietà della famiglia Cannone, alla Fondazione Archeologica Canosina che, da oltre trenta anni, si occupa di studiare e promuovere la cultura locale prevalentemente in ambito archeologico.

Si tratta di una porzione di territorio modesta condivisa da più eredi, che acquista una particolare importanza proprio per la sua posizione. Il terreno è, infatti, confinante con l’area archeologica degli ipogei Lagrasta. Ci saranno perciò altre scoperte e iniziative interessanti? È indubbio che il ruolo degli organi di tutela, in questo caso anche della Fondazione, è determinante per la gestione, la fruizione e la valorizzazione dei beni archeologici immobili e mobili del territorio in un’ottica di piena condivisione.

Gli ipogei Lagrasta, per l’eccezionalità dei corredi funerari emersi, sono stati soprannominati “ipogei del tesoro” e i reperti recuperati sono oggi esposti nei principali musei del mondo. Questi ipogei sono costituiti da una grande tomba a camera composta da nove ambienti funerari. Il loro stile architettonico e decorativo è diffuso in un’ampia area geografica, includendo Creta, Macedonia, Etruria meridionale e Napoli. Simili caratteristiche si ritrovano negli ipogei Varrese e Scocchera B di Canosa. È probabile che l’opera sia stata commissionata da una facoltosa famiglia aristocratica locale, conosciuta come i “principi dauni”.

Molti dei vasi recuperati dagli ambienti dell’ipogeo sono oggi custoditi al Louvre di Parigi, dove si possono ammirare numerosi altri reperti provenienti da Canosa, e al British Museum di Londra, che ospita centinaia di oggetti della stessa provenienza. Due ulteriori reperti sono esposti al Musée des Beaux-Arts di Lione, mentre in Italia, il Museo Archeologico Nazionale di Napoli conserva la maggior parte del “tesoro” dell’Ipogeo Lagrasta nei suoi sotterranei, inclusa la celebre ceramica a figure rosse conosciuta come il Vaso di Dario (340-320 a.C.), uno dei pezzi più rappresentativi della ceramica italiota.

Un altro elemento distintivo del sito è la vicenda di Medella, una giovane greca sposata a un romano, sepolta nell’ipogeo nel 67 a.C. e ultima persona a essere tumulata in questa tomba. Un’iscrizione incisa nel tufo di una delle stanze sepolcrali narra la sua storia. Il suo corpo fu deposto su un letto di bronzo, accompagnato da un ricco corredo funerario che comprendeva gioielli, tessuti e vasellame. I suoi tesori, inizialmente trasferiti al Museo Borbonico di Napoli e successivamente al Museo Nazionale di Copenaghen, includono un diadema impreziosito da pietre preziose, oggi esposto al Louvre. Un destino simile riguarda gli ori di Opaka, una principessa del VI secolo a.C. morta a soli 14 anni: il suo diadema, capolavoro di oreficeria del III secolo a.C., è custodito al Museo Archeologico di Taranto, insieme ad altri monili recuperati nella “tomba degli ori di Canosa”, una delle più famose della città insieme agli ipogei Lagrasta.

Donare un appezzamento di terreno, dotato di un potenziale culturale, può rappresentare in effetti un vantaggio per ambo i contraenti. Al netto dell’aspetto filantropico, vi è l’opportunità di ridurre il carico fiscale e successorio e i correlati costi. Inoltre si risparmiano gli oneri di gestione e manutenzione e quelli collegati a un’eventuale alienazione a titolo oneroso. Ovviamente, in un caso del genere, potrebbe essere possibile, ex art. 25 D. Lgs 50/2016, una procedura di archeologia preventiva, in vista di eventuali prescrizioni tecniche, di vigilanza su vari piani e vincoli di interesse. Inoltre, a riguardo, è bene ricordare la previsione contenuta nel Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio in tema di fondazioni (artt. 6-112-115) che, sinteticamente, attiene ai seguenti aspetti:
– possibilità di creare fondazioni miste pubblico/private per la gestione dei beni culturali finalizzate a esercitare un’attività di valorizzazione;
– la centralità del “bene culturale”, ovvero di ciò che presenta un “interesse culturale”, che può essere “artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico” per la valorizzazione che “consiste nell’esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso, anche da parte delle persone diversamente abili, al fine di promuovere lo sviluppo della cultura…”.

La funzione principale di questo tipo di fondazione è dunque gestire e valorizzare i beni culturali di proprietà pubblica.

È possibile, al di là dell’interesse e della soddisfazione personali, ossequiare virtuosamente il patrimonio e la storia famigliare adottando formule idonee a preservare la cultura espressa dalla terra per le future generazioni?
Solo il futuro ce lo potrà dire.

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