Ignorare o rileggere? L’Allegoria della Redenzione e quei simboli fascisti che (ancora) nessuno vuole toccare

Dai primi risultati di uno studio, condotto dall’Istituto Storico Italo-Germanico sull’eredità materiale del Ventennio fascista in Trentino, emerge lo strano caso del ciclo pittorico che decora la Sala del Consiglio comunale di Trento a Palazzo Thun

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Da storico dell’arte, sono portato a prendere le opere d’arte terribilmente sul serio, e avverto tutto intero il potere delle immagini: e così non riesco davvero a rimanere impassibile di fronte alla smisurata pittura murale di Mario Sironi che copre l’intera parete ʻabsidaleʼ dell’Aula, facendo da sfondo ad ogni evento. Uno sfondo non neutro, ma appunto attivo, minaccioso: vivo e potente, come lo sono le vere opere d’arte. […] Da un punto di vista scientifico era sacrosanto recuperare quest’opera nella sua versione originale. Ma poi bisognava anche prendere atto che quel recupero era incompatibile con l’uso corrente dell’Aula Magna della più influente università italiana: e sarebbe toccato agli storici dell’arte fare il proprio lavoro fino in fondo, senza trincerarsi dietro la pretesa neutralità scientifica della disciplina. […] E, dunque, delle due l’una: o l’aula si musealizzava, o la si modificava con un intervento artistico (per esempio sul soffitto) capace di avere altrettanto impatto nell’esprimere l’antifascismo della maggiore università di una Repubblica che sull’antifascismo è fondata. Invece, nulla: nel 2017, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha inaugurato l’opera restaurata, come se niente fosse.

(Tomaso Montanari, Le statue giuste)

Per collocazione e per iconografia, il dibattito attorno a L’Italia tra le Arti e le Scienze non si è mai del tutto sopito. L’affresco di circa 100 mq, che decora l’Aula Magna del Rettorato della Sapienza a Roma, è stato realizzato da Mario Sironi nel 1935 in poco più di tre mesi. La personificazione dell’Italia fascista è inserita tra le immagini simboliche di Botanica, Geologia, Mineralogia, Geografia, Pittura, Architettura, Scultura, Giurisprudenza e Letteratura. La visione epica della storia è fissata in una dimensione atemporale che allude alla ricchezza e al valore della conoscenza su uno sfondo roccioso dominato dalla Vittoria alata. Caduto il fascismo, l’opera è stata ricoperta con fogli di carta da parati direttamente incollati e inchiodati sulla sua superficie. Un secondo intervento del 1950, volto a eliminare i richiami fascisti e a neutralizzare la cifra stilistica di Sironi, ha ridipinto il murale. Due anni di restauro hanno recuperato la veste originaria che dal 2017 è nuovamente visibile. Senza intermediazione.

E in Trentino, cosa ne è dei monumenti, delle architetture e delle opere d’arte realizzati durante il Ventennio fascista? Per volontà diretta del Duce, per adesione ed esaltazione del Regime o per captatio benevolentiae, il risultato non cambia: dopo 80 anni dalla Liberazione i resti sono ancora lì, sparsi, spesso ignorati, il più delle volte ben visibili. Della questione se ne sta occupando Giorgio Lucaroni, ricercatore di FBK-Istituto Storico Italo-Germanico, con il progetto triennale Per una storia dell’eredità materiale del Ventennio fascista: il caso trentino. La ricerca è finanziata dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto e condotta in collaborazione con il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale e il Dipartimento di Ingegneria Civile, Ambientale e Meccanica dell’Università degli Studi di Trento, la Fondazione Museo storico del Trentino e la Soprintendenza per i Beni e le Attività Culturali di Trento. I primi risultati di archivio e studio sono stati anticipati lo scorso 22 novembre in un seminario che si è tenuto a Trento presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale. Le relazioni, in particolare quelle di Lucaroni e di Elmar Kossel (Universität Innsbruck), hanno illustrato le specificità e le differenze del cosiddetto Difficult Heritage in ambito trentino, altoatesino e nazionale. “Le ragioni che hanno determinato la sopravvivenza, il riuso o l’abbandono del lascito fascista in età repubblicana” sono state analizzate e discusse per stimolare “una riflessione critica sulla memoria locale nel secondo dopoguerra”. La lapide commemorativa, in ricordo della visita a Trento di Benito Mussolini del 31 agosto 1937, murata a Palazzo Pretorio; la ex Casa del Fascio, conosciuta anche come Casa Littoria e oggi sede dell’Avvocatura della Provincia di Trento, e il sacrario dei martiri fascisti; La donna del Fascio nel mosaico di Gino Pancheri (1937) in Galleria Legionari Trentini; le Case della Gioventù Italiana del Littorio (GIL) di Trento e Rovereto; la Casa della Giovane Italiana per l’Opera Nazionale Balilla a Bolzano, dal 1937 Casa GIL e oggi sede del centro di ricerca applicata Eurac Research; Il bassorilievo di Hans Piffrader, a decorazione della ex Casa Littoria di Bolzano oggi Palazzo degli Uffici finanziari; il Monumento alla Vittoria a Bolzano. Sono questi alcuni degli esempi scelti per rilevanza, positiva o negativa, degli esiti di ridefinizione della memoria che, specialmente a Bolzano, sono stati accompagnati da un lungo dibattito pubblico e da soluzioni condivise di bilanciamento storico, estetico e culturale: il “credere, obbedire, combattere” di Piffrader – a differenza del murale di Sironi – dal 2017 è accostato e sovrapposto dal “Nessuno ha il diritto di obbedire” di Hannah Arendt.

Curiosa ed emblematica è invece la vicenda dell’Allegoria della Redenzione, il ciclo pittorico commissionato nel 1937 al veronese Pino Casarini che, ininterrottamente e indisturbatamente, da 87 anni decora le pareti della Sala del Consiglio comunale di Trento al piano nobile di Palazzo Thun. Si tratta di un’opera donata da Alberto de Eccher, sviluppata su quattro pannelli e ispirata alla pittura italiana del Rinascimento. Gli episodi e i personaggi raffigurati rappresentano il Pensiero precursore del Risorgimento trentino ed azione, L’attesa e la preparazione, I Martiri e la Vittoria e L’impero. L’essenzialità delle forme e la monumentalità delle figure, le cromie e l’enfasi celebrativa sembrano ricalcare le soluzioni sironiane. In particolare, nella tela posta alle spalle degli scranni più importanti del Consiglio, all’interno della fondazione dell’Impero, ritroviamo “da una parte le donne trentine di tutti i ceti e di tutte le età versano le ‘fedi’ nell’elmo posto sopra un’ara investite dal mistico sentimento di dedizione alla patria. Dall’altra la gioventù maschile combatte in Africa Orientale, con la zappa e con la vanga, col fucile e con tutti gli arnesi di guerra più perfezionati; è fiancheggiata dagli ‘sphais’, le fedeli truppe coloniali, e dietro, davanti alle ambe abissine, domina sullo sfondo la ciclopica testa del Duce quale fu scolpita nel sasso dai Legionari” (la descrizione è contenuta nella documentazione conservata presso l’Archivio storico, Teca 212, e presso la Biblioteca comunale, T II b 665, ndr). Il sacrificio delle donne devote alla patria, il machismo giovanile, l’esaltazione della guerra, il furore colonialista, il testone di Mussolini scolpito nella roccia. Non manca proprio nulla del campionario della propaganda fascista. E quasi nessuno ci fa caso.

Per Giorgio Lucaroni questo si configura come un caso di oblio documentale, fotografico e biografico. Dalla ricerca condotta nell’Archivio del Comune di Trento sono riemerse appena due interrogazioni, entrambe risalenti agli anni Cinquanta, che non hanno avuto alcun seguito. Le pochissime immagini reperibili, anche in rete, sono datate e di bassa qualità. Della produzione e della vita di Casarini si è quasi persa la memoria. Il silenzio calato su queste opere e la disattenzione istituzionale verso i simboli fascisti, che ancora risiedono nell’Aula del Municipio di Trento, hanno acceso il dibattito tra ricercatori e pubblico. Nessuno tra i presenti al seminario, compreso Paolo Castelli, già assessore e consigliere comunale, ha manifestato contezza del ciclo o del suo messaggio. In termini di salvaguardia dell’opera e della sua unitarietà, secondo Fabio Campolongo, funzionario della Soprintendenza per i Beni e le Attività Culturali di Trento e docente a contratto del Dipartimento di Ingegneria Civile Ambientale e Meccanica dell’Università degli Studi di Trento, in qualche modo, proprio l’indifferenza ha garantito la sua tutela.

In attesa del saggio di Lucaroni, Sull’eredità materiale del ventennio fascista. Una rassegna storiografica, che sarà pubblicato a breve nella rivista scientifica Il Mestiere di storico, abbiamo chiesto a Paolo Piccoli, presidente del Consiglio comunale, e a Franco Ianeselli, sindaco di Trento quali siano le idee e le intenzioni sull’opera casariana.

P.P.: «C’è una premessa da fare. La vicenda di quel ciclo pittorico s’interseca con la vicenda di un altro ciclo pittorico, quello degli affreschi di Domenico Riccio detto Brusasorci del Cinquecento. Dipinti molto belli, la guerra di Cartagine, Scipione l’Africano, Apollo e Pan, che erano sulla casa Cloz Salvetti e che nel 1902 la contessa Saracini ha donato al Comune di Trento perché ornassero la Sala del Consiglio. Sto facendo delle ricerche per capire se sono mai stati collocati lì, probabilmente no: sono stati strappati dalla facciata di palazzo Cloz Salvetti, in via San Marco, e adesso sono al piano superiore della Sala, delicatissimi e bellissimi, ovviamente molto meglio conservati di quelli delle pareti esterne della Trento dipinta. Per quanto riguarda il ciclo casariano, ho studiato la documentazione dei restauri compiuti dal Comune nel 1990, ho rintracciato l’atto di acquisto del palazzo, e tutto quello che ne ha conseguito, e anche com’è nata la questione delle tele. L’iniziativa non è del Comune ma di Alberto de Eccher, soldato con Garibaldi a Bezzecca: nel 1866, lasciata a 24 anni una probabile brillante carriera universitaria di chimico a Berlino, viene a combattere nella valle del Chiese. Infervorato per il recupero dell’italianità del Trentino, a più di 70 anni si arruola nella Prima Guerra Mondiale. Sopravvissuto al conflitto, dopo il trattato di Saint-Germain-en-Laye torna a Mezzocorona ormai annessa al Regno d’Italia. A quel punto dà disposizioni per la realizzazione di un ciclo pittorico con tema la Redenzione, non per il Comune di Trento ma per il Museo del Risorgimento (Fondazione Museo storico del Trentino dal 26 novembre 2007, ndr). L’esecutore testamentario – così lo chiameremmo oggi – decide di affidare l’incarico al veronese Pino Casarini e propone la donazione al Comune. Gli artisti trentini immediatamente scrivono a Depero, segretario del Sindacato degli artisti, chiedendo: “non ce ne sono trentini che possono realizzare le opere?”. La storia va, più o meno, così. Nel programma decorativo il committente de Eccher compare in divisa in due occasioni: in un angolo esterno alle tele (gli angoli di raccordo sono affreschi, ndr) e sotto la Vittoria alata. Come presidente del Consiglio comunale ho deciso di aprire alcune sale e mostrare il palazzo ai cittadini. L’idea di spiegare il ciclo è venuta immediatamente. Se la domanda finale è cosa penso delle tele, come di mille altre cose di quella era lì, è che assolutamente non le condivido: hanno portato solo disastri e lutti al nostro Paese. Ma credo che la cultura della cancellazione del passato non vada bene perché non possiamo ripartire sempre da zero. Quello che invece dovremmo fare è recuperare il rapporto con quei momenti anche artistici e ragionare su che cosa ha voluto dire storicamente quel periodo per l’Italia. Dobbiamo fare una riflessione che contestualizzi ciò che è accaduto. Abbiamo la faccia di Mussolini nella Sala del Consiglio, in Piazza Venezia a Trento abbiamo il soldato con il moschetto sulla ex Casa del Fascio, davanti al Foro Italico a Roma abbiamo un obelisco con scritto “DUX”: cancelliamo tutto? Le opinioni possono essere le più varie, la mia è che invece di cancellare dobbiamo capire, che è un’altra cosa».

Dalla ricerca e dal dibattito era emerso l’invito a una risemantizzazione. A differenza del murale di Sironi, le tele di Casarini sono mobili e potrebbero essere spostate, togliendole da una cornice di rappresentanza istituzionale del potere, e contestualizzate in un museo.
P.P.: «Il dibattito può portare a varie soluzioni. Personalmente ho l’impressione che, se quelle tele vengono spostate e musealizzate, saranno viste ancora meno. Quello che probabilmente va fatto è invitare di più le persone, è spiegare di più che cosa vuol dire tutto questo; ma quelle tele sono là da più di 80 anni e hanno attraversato la storia del Consiglio comunale di Trento, nel bene e nel male. Non aprirei un caso su questa vicenda».
F.I.: «Questa è una città che non ha sentito venir meno il proprio antifascismo, e quindi lo svolgimento di una vita democratica antifascista, a causa di quella sala. Il presidente Piccoli sta lavorando molto sull’approfondimento della conoscenza. Io faccio il sindaco, non il soprintendente: ho un atteggiamento in generale di apertura alla contemporaneità, ma nel 2025, al di là di Mussolini, per raccontare la storia di Trento ci fermiamo a quegli eventi? Dagli anni Cinquanta in poi penso siano successe cose molto significative, quel momento s’iscrive nella Trento irredenta e fascista. Non è che uno rimanga ammaliato (dai simboli fascisti, ndr) quando entra nella Sala del Consiglio comunale e il fatto che le opere siano rimovibili aggiunge possibilità. Ma la cancel culture non aiuta e pone delle comprensibili ritrosie in chi non vuole essere iscritto tra quelli che vogliono, ad esempio, togliere la statua di Colombo. Dato il momento, bene che si apra un dibattito scientifico, male sarebbe che il politico o la politica, in maniera imperativa dall’alto, dica “si fa e si cambia”. Oltre al togliere, che è sempre possibile, dovremmo poi capire come riempire e come aggiornare: noi tutti siamo nelle condizioni di riempire la sala della città e di raccontare la storia di Trento, così come fa quel ciclo? Oltre al vuoto, al bianco, si dovrebbe lavorare sull’aggiornamento della storia, ma a 80 anni (dalla Liberazione, ndr) bisogna capire se c’è il distacco sufficiente per farlo. Io direi di sì. C’è la Trento di Mario Pasi, il secondo dopoguerra, la ricostruzione e la Trento che rinasce dopo i bombardamenti. Però il dibattito è aperto, il punto è tutelare il giusto e affrontare il contemporaneo».

Tra il lasciare tutto com’è e il togliere, creando un vuoto, ci può essere una terza via: aggiungere. Trovando una soluzione, come una epigrafe, che integri il ciclo pittorico. Sottoporre la questione a un concorso d’idee potrebbe essere una iniziativa culturale di indirizzo del Consiglio.
P.P.: «Non apprezzerei una iniziativa puramente politica per dire “da lì vanno tolti determinati simboli” perché quei simboli sono contestualizzati nella storia di quella sala e sono simboli anacronistici. I valori antifascisti sono stati affermati nonostante il ciclo pittorico. Se invece il ragionamento è culturale e c’è un progetto complessivo di riqualificazione della sala, ragioniamoci. No a una forzatura politica».
F.I.: «Non è rilevante quello che succederà il prossimo 4 maggio (data delle elezioni amministrative, ndr). Contestualizzare sì, però la storia della città non si ferma. Quella sala risente molto della Trento irredenta, ma la città è andata avanti. Credo sia un misto tra dibattito culturale, sensibilità diffusa della città e anche scelte del politico che deve però interpretare l’atmosfera culturale del momento. Il dibattito non è indifferente: se la decisione è dall’alto rischia di essere l’impuntatura; se sale, tutto si può fare. Senza ombra di dubbio l’iniziativa non potrebbe partire che dal Consiglio comunale: non è del presidente, che pure su Palazzo Thun ha il suo ruolo, e nemmeno del sindaco, ma sarebbe compito del Consiglio, auspicabilmente con una maggioranza ampia, altrimenti con la maggioranza che c’è, aprire una interlocuzione con la Soprintendenza e capire cosa fare».

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