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Indiana Jones non ha più eredi?

Copertina 2
(Tempo di lettura: 3 minuti)

Se vuoi diventare un bravo archeologo, devi uscire da questa biblioteca!
(Dal film “Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo”)

Giungono voci, da Oltremanica e da Oltreoceano, secondo cui la disciplina dell’archeologia, a fronte della presenza, banalmente, di 54 siti archeologici in USA, 5 in Canada e 36 nel Regno Unito, non desterebbe più interesse tra i giovani di quelle terre. I corsi universitari dedicati sarebbero destinati a terminare anzitempo, senza una reale ragione. In effetti, a partire dal livello politico, questi corsi sono ritenuti non più sostenibili, principalmente a causa del numero troppo basso di potenziali laureati e specializzati. Una flessione che in realtà riguarda, in generale, tutti gli studi classici, in cui sono solitamente inseriti i percorsi di studio in archeologia.

Non si tratta di echi qualsiasi, bensì di fonti qualificate per ora confinate all’interno del mondo accademico, una vera e propria preoccupazione per il destino di queste discipline e per gli impatti derivanti da queste scelte, che paia non interessare i media o altre figure: purtroppo siamo la società del disimpegno (sic!). Probabilmente ci stiamo abituando ai cosiddetti tagli trasversali di personale e risorse finanziarie, in ogni settore, per cui ormai non ci fa nemmeno più effetto, non ci indigna, figuriamoci se poi gli ambiti considerati rientrano nella formazione e nella cultura, a maggior ragione se di stampo classico, ignorandone completamente, se non addirittura calpestandone, l’importanza fondamentale per comprendere l’evoluzione della civiltà umana: una nuova forma di damnatio memoriae.

Il prossimo autunno, i corsi delle materie classiche saranno sospesi per mancanza di finanziamenti. Oltremanica, alle Università di Roehampton, Wolverhampton e Sheffield Hallam, già a partire dal 2022, sono stati tagliati rispettivamente i dipartimenti umanistici, interrotti i corsi di laurea e cancellati numerosi programmi di studio. Anche la Howard University di Washington, DC, il solo ateneo statunitense ad avere un dipartimento di studi classici, ne ha annunciato e poi decretato la chiusura nell’estate 2021.

Sorprende, in generale, che in tutte queste università la qualità degli insegnamenti sia riconosciuta di assoluto livello, come attestato dalla loro pluridecennale, se non centenaria, tradizione accademica, anche con riguardo all’inclusione sociale per cui è nota, per esempio, la suddetta Università di Howard: la prima ad accogliere studenti di colore e ad aprire gli studi sulla storia degli afroamericani. Oltre a precludere l’accesso a questi corsi, vi sono ricadute negative sul personale docente: cosa faranno? E la ricerca? Gli enti collegati, dove sono presenti materiali, libri, reperti, che destino avranno? Si tratta forse di rigurgiti di suprematismo?

Di questa crisi, seppur con tinte e prospettive diverse, avevamo trattato tempo fa su queste pagine, con riferimento alla situazione italiana e ai potenziali sbocchi lavorativi dei neolaureati. Qui, però, la storia sembra diversa, per certi versi peggiore. Uno scenario inquietante, ulteriore sfaccettatura di una crisi di portata considerevole, liquidata rapidamente in chiave economica secondo le sintesi perverse del “non produce” o “non è sostenibile”.
Del resto, anche nel nostro Paese, gli studi classici, oltre alla flessione dei frequentanti, registrano ormai la tendenza a essere orientati e ampliati verso orizzonti di formazione economica e turistica, per renderli più appetibili e connessi alle esigenze del mercato del lavoro.

Tornando al tema in senso stretto, non si può che evidenziare come il fenomeno sia potenzialmente generatore di vuoti di conoscenza del patrimonio culturale, passando per la valorizzazione e la tutela.

Esulando dall’aspetto strettamente culturale, è quanto mai curioso, se non altro induce a ulteriore riflessione, che i paesi anglosassoni, storicamente tra quelli in cui operano molti collezionisti e acquirenti di antichità e beni d’arte in generale, si privino di risorse autorevoli, con percorsi di studio e alta formazione in ambito classico, utili per qualificare gli esperti chiamati a svolgere un ruolo chiave nei contesti commerciali. Inoltre, chi si occuperà, in quei contesti, di contrastare i traffici illeciti di beni culturali, atteso il ruolo svolto dagli esperti con competenze e preparazione specifica? Verrebbe meno un aspetto fondamentale, prefigurando in tal senso probabili future acquisizioni di beni culturali con modalità poco trasparenti, al netto delle procedure di tutela operanti nei singoli Stati in via amministrativa, di circolazione e, più in generale, di enforcement culturale.

Le logiche di mercato ed economiche prevarranno a prescindere? Purtroppo, partendo dall’analisi di queste dinamiche e delle possibili correlate evoluzioni (sic!), si è indotti a dare una risposta affermativa. Un altro aspetto che incide notevolmente deriva dalla sempre più frequente scelta di ricorrere alla tecnologia in modalità succedanea, a scapito della professionalità ed esperienza umana, che matura e si affina nelle varie discipline solo col tempo: lo strumento ipertecnologico prevale sulla componente umana.

Ci stiamo via via trasformando in cyborg, con la cieca sfrontatezza di inseguire chimere e sfidare lo spazio profondo, senza però volerci confrontare con il nostro passato. In altri ambiti già si raccolgono i frutti negativi di questa tendenza: una rovina non solo materiale, ma anche spirituale.

Non si vorrebbe, per concludere, che questi tagli, già di per sé laceranti, corrispondano invece a risorse recuperabili per impiegarle in armamenti: sarebbe un ulteriore fallimento e la prova che la cultura è la prima vittima delle guerre.

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