Chi commette un’ingiustizia è sempre più infelice di quello che la subisce
(Platone)
La notizia, clamorosa e deflagrante negli ambienti culturali romani e non solo, pubblicata in esclusiva dal quotidiano la Repubblica il 7 marzo scorso, è passata un po’ in sordina, chissà perché.
L’articolo riferisce che quattro reperti lapidei, considerati ab origine di assoluto pregio e rarità, esposti nella mostra Lex-Giustizia e diritto dall’Etruria a Roma, tenutasi dal maggio al settembre 2023 presso il Museo dell’Ara Pacis, sarebbero falsi. I beni e perfino il catalogo realizzato nella circostanza sono stati sequestrati. Il decreto della magistratura sarebbe stato emesso dopo aver acquisito le relazioni di un’archeologa e di un critico/perito d’arte. Un terzo esperto avrebbe perfino visionato i beni archeologici prima della loro esposizione, esprimendo seri dubbi sulla loro autenticità.

Il condizionale è d’obbligo, viste le modalità di diffusione della notizia, l’assenza di conferme e smentite da parte di organi inquirenti e istituzionali. La prima reazione, oltre allo sconcerto dopo la lettura dell’articolo, è compendiabile in una serie di quesiti: Se ne sono accorti solo adesso? Un altro avvenimento dello stesso tenore dell’affaire al Palazzo Ducale di Genova per i falsi Modigliani? Uno scherzo?
C’è differenza tra i due casi in effetti, ma probabilmente per un’asincronia, seppur egualmente tardiva, dei dovuti controlli e dei sopravvenuti sequestri: quelli della mostra genovese furono operati a mostra in corso.
Controlli che, in realtà, per essere davvero efficaci, dovrebbero essere svolti prima che l’evento culturale abbia luogo, specie se all’interno di un museo, a maggior ragione pubblico. A volte, come accaduto in altri casi, vi sono avvisaglie, premonizioni.

È una questione etica prima di tutto, come ci ricorda la dichiarazione dell’assemblea generale di ICOM, tenutasi a Praga nel 2022. I beni da esporre sono un altro aspetto su cui focalizzarsi, sia quelli provenienti dalle collezioni permanenti, sia quelli inseriti a vario titolo nelle mostre, che ormai, a torto o ragione, sono gli eventi d’elezione per declinare il successo dei musei, essendo pensate per attrarre il maggior numero di visitatori.
A questo punto, per l’ennesima volta, valgono i soliti interrogativi, tanto banali quanto fondamentali, troppe volte disattesi dalle correlate risposte. Al netto di ciò che emergerà in ordine al caso specifico, su cui sono probabilmente in corso delicate indagini, trattandosi oltretutto di fatti avvenuti in contesti pubblici, su cui si pronunceranno doverosamente i giudici sono opportune, in termini più generali, alcune riflessioni di interesse comune.
L’origine, la provenienza, l’inventariazione, la schedatura dei reperti e dei beni d’arte sono sempre disponibili e puntuali? Secondo quali metodologie viene eseguita la catalogazione? Queste procedure dovrebbero essere adottate anche in relazione alla previsione dell’art. 101 D.lgs. 42/2004, n. 42 (Istituti e luoghi di cultura) laddove se ne sottolinea la fruizione, nei termini di servizio pubblico o di pubblica utilità qualora espletata da privati.
Insomma ci scandalizziamo per le dinamiche di mercato, talvolta spregiudicate e condotte in assenza o scarsezza di parametri di due diligence, e cadiamo proprio sui luoghi deputati per eccellenza a rappresentare la vera cultura?
Le mostre mercato, per lo meno quelle più importanti, per evitare problemi di sorta e per valorizzare al meglio ciò che sarà esposto, si pensi al Tefaf di Maastricht, ricorrono al vetting, in cui confluiscono, come nel caso olandese, oltre 200 esperti tra accademici, mercanti e specialisti di vario settore: e per le mostre nei musei?
In effetti è ormai invalsa una certa prassi, frutto proprio di una standardizzazione che bada più alla quantità che alla qualità. I vari enti museali acquistano pacchetti di mostre itineranti, tutto compreso. Opere prescelte, strumenti e supporti espositivi, movimentazione/trasporto e assicurazione “chiodo a chiodo” fanno parte di questa formula, dove, in ogni caso è necessario richiedere il preventivo nulla osta della Soprintendenza per la sede di svolgimento, per lo spostamento di collezioni di interesse e per i singoli beni in base alla loro tipologia. Siamo certi che ciò avvenga nei termini e nei tempi corretti? A volte viene perfino commissionata la realizzazione del catalogo della stessa mostra, che dovrebbe contenere gli apparati scientifici e le schede dei beni: volumi patinati, molto glamour ma, ahinoi, spesso di poca sostanza.
Forse più che la “Cultura” viene così veicolata la “cultura”, con un’attenzione rivolta ad abbassare i costi (e la qualità, sic!) e aumentare i profitti. Del resto, già anni fa, Federico Zeri, parlava di “mostriciattole”: il termine è sufficientemente evocativo e non ha bisogno di ulteriori spiegazioni.
È auspicabile non sperperare risorse economiche pubbliche, senza tuttavia portare avanti iniziative di scarsa qualità: la cultura ha una funzione sociale, promossa e tutelata ai massimi livelli costituzionali, non dimentichiamolo. È necessario partire proprio da questo assunto condiviso, se non altro a un livello ideale, per affrancare ognuno di noi dalla condizione di mero consumatore: la cultura deve guardare al futuro, senza piegarsi a un’esigenza perversamente indotta.
Bisogna esplorare nuovi percorsi su vari fronti, a partire da un’amministrazione pubblica più aperta e lungimirante, ad attori privati che vadano oltre l’interesse economico-finanziario e solo dichiaratamente filantropico, bensì in connessione con una società civile responsabile e meno autoreferenziale. È necessario dunque che maturi una consapevolezza soprattutto tra coloro che si occupano di creare e di diffondere cultura: dovranno interrogarsi a fondo sul valore etico-sociale di questo aspetto e agire di conseguenza. Tra gli osservatori del fenomeno, tra i quali rientra anche questa testata giornalistica, è doveroso invece ricorrere a paradigmi interdisciplinari per comprendere il cambiamento e tentare di comunicarlo, partendo da fatti reali e dati concreti, curando l’informazione anzitutto secondo i presupposti irrinunciabili di una specchiata verità.
Tutto ciò, in ultima analisi, non è che un impegno di livello corale, per rendere virtuose e diffuse le best practice e favorirne lo sviluppo con tempi e risorse equilibrati, affinché siano adottate serie e utili politiche culturali che, partendo dal livello locale, possano irradiarsi su uno scenario internazionale.
Tornando al contesto museale di cui si è detto in principio, sembrano davvero lontane, disperse nel tempo e disciolte in una caotica immanenza, le qualità di fondo e le aspettative simboleggiate da questa importante testimonianza. Provocatoriamente, si può dire che le volontà di Augusto (63 a.C.-14 d.C.) siano state disattese. Nell’intento dell’imperatore, l’Ara Pacis avrebbe dovuto rappresentare, plasticamente, la pax perpetua garantita da una nuova Roma, degna del suo glorioso e mitico passato, attestazione di un valore di civiltà.
La storia, tuttavia, ci racconta ben altro riguardo questo complesso architettonico-monumentale, simbolo della Romanità, di una sua ormai sbiadita magnificenza, delle traversie e miserie umane succedutesi in quel contesto nei secoli, anche in epoche più o meno recenti, rispetto alla questione trattata.
Sic transit gloria mundi!
Columnist – Cultural Heritage Expert