Verità rubate. Luca Zamparo: «Questo progetto espositivo è la restituzione civica delle nostre ricerche»
L’arte della contraffazione in mostra gratuitamente al Palazzo del Monte di Pietà di Padova fino al 31 maggio 2015

Luca Zamparo, archeologo che svolge attività di ricerca e didattica presso l’Università degli Studi di Padova sui beni cercamici, sulle modalità di riconoscimento degli oggetti falsificati e sulla valorizzazione del patrimonio culturale, è ideatore insieme a Monica Baggio e a Monica Salvadori del progetto didattico ed espositivo che mette in dialogo e a confronto reperti autentici con pezzi falsi. Lo abbiamo intervistato tra le vetrine e le luci della mostra.
Da tempo lei lavora allo studio e alla divulgazione di questo progetto didattico sul falso. E anche l’esposizione in corso s’inserisce nella missione e nella visione dell’Università degli Studi di Padova che, a partire dalla donazione, ha approfondito il concetto e il fenomeno della falsificazione, creando laboratori per gli studenti e iniziative aperte al pubblico.
«È un lungo percorso che nasce nel 2015 quando l’avvocato Bruno Marchetti (1941-2014, ndr) lascia per volontà testamentaria la sua collezione all’Università. Marchetti aveva studiato a Padova e aveva rapporti con il professor Mirco Melanco, che insegna Cinema del reale. L’avvocato era un collezionista poliedrico che s’interessava a tre filoni in particolare: le antichità, i film orientali e i presepi. La sua raccolta di pellicole, donata ben prima della sua morte, è una delle collezioni più grandi d’Europa e copre anche i tempi in cui la filmografia orientale era vietata. Viaggia fin da giovanissimo, per la maturità classica riceve in regalo una crociera sul Nilo. I racconti ci descrivono un uomo che gira il mondo, nei paesi arabi e nei paesi africani, che riesce sempre a trovare l’escamotage per visitare un sito chiuso. È un tipo appassionato che arriva dove vuole. In tutti e tre i filoni è evidente la volontà di accumulo, di ricerca e di studio che si riflette anche nei volumi della sua biblioteca dove sono presenti tantissimi cataloghi di mostre, libri di archeologia, di storia dell’arte e di tutto quello che raccoglie. Marchetti era un collezionista dotto e preparato, ma come mai una persona così esperta è inciampata nel falso? Siamo partiti da questa domanda. Abbiamo intervistato gli eredi, gli amici, il suo avvocato. La sua era una passione senza alcun fine commerciale, iniziata dopo gli incarichi pubblici. Non abbiamo una data precisa: per anni si dedica alla politica e diventa presidente dell’Assemblea della Regione Veneto, in quel periodo promuove le grandi mostre a Venezia come L’Oro degli Sciti (1977, ndr). È un contatto diretto fra l’Italia dell’epoca – lui era socialista – e la Russia, molto amico del direttore del Museo Ermitage di San Pietroburgo, un personaggio davvero sfaccettato».

L’Università aveva già maturato esperienze nel campo della contraffazione?
«Padova con gli studi di Irene Favaretto si era sempre occupata di collezionismo, ma mai di falsificazione. E anche noi, all’inizio, non ritenevamo di dovercene occupare, non così tanto almeno. Pensavamo di dover approfondire la ricezione del mondo antico in età moderna e contemporanea, di dover parlare di ripresa del gusto. Invece arriva questa collezione, iniziamo a studiarla e ci accorgiamo che alcuni pezzi sono falsi».
Quanti oggetti sono stati donati?
«356. Erano tutti allestiti a casa Marchetti, nelle varie stanze, alcuni collocati in mobili su misura. In un armadio c’erano dei pezzi di carro pseudo etrusco, sullo stile della Biga di Monteleone. Il problema maggiore – come diceva un archeologo inglese diverso tempo fa – è che noi archeologi abbiamo a che fare con le persone senza le persone, ci dobbiamo basare solo su ciò che ci hanno lasciano, dobbiamo far parlare gli oggetti senza poter parlare con chi li ha posseduti».
La collezione era accompagnata da certificati o da ricevute di vendita?
«Nulla. Speravamo tenesse un diario giornaliero, ci poteva stare vista l’epoca, ma non abbiamo trovato niente, giusto il biglietto da visita di un antiquario dentro un vaso. Da quello che ci è stato raccontato, l’avvocato era una persona generosa, molto buona, una persona che forse si è fatta ingannare».
Torniamo al 2015.
«Costituiamo un piccolo gruppo di ricerca, eravamo in quattro, per capire cosa fare della donazione. Nel 2017 organizziamo la prima International Winter School Anthropology of forgery, il nostro primo grande evento internazionale su questo tema perché sentivamo la necessità di confrontarci con altri: scarseggiava la bibliografia italiana, c’era qualcosa di internazionale ma poco sull’archeologia, quasi zero pubblicazioni su riviste scientifiche. Nel 2019 vanno in stampa gli atti. Nel frattempo la Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, che oggi ospita questa piccola esposizione, pubblica il bando Progetti di eccellenza, specifico per proposte multidisciplinari di lungo respiro. Vinciamo. A febbraio 2018 riceviamo la notizia, lo ricordo come fosse ieri, e nasce il Progetto MemO, un lavoro sulla memoria, su ciò che gli oggetti ci possono dire anche quando sono decontestualizzati, non solo, anche uno studio su quegli oggetti che, in svariati modi, sono arrivati nei musei da collezioni ottocentesche. Imbastito il progetto arriva il Covid che ci mette i bastoni tra le ruote».
Quanto sarebbe dovuto durare?
«Ufficialmente tre anni, dal 2019 al 2021, invece si è concluso nel 2023 grazie alla proroga concessa dalla Fondazione: per tanto tempo i musei sono stati chiusi, non potevamo organizzare le attività, non potevamo fare ricerca negli archivi, abbiamo quindi dovuto rimandare».
Come nasce questa mostra?
«Abbiamo sempre ragionato su come mantenere vivo il rapporto tra ricerca, didattica e divulgazione: questo progetto espositivo è la restituzione civica delle nostre ricerche. È una necessità che io e le colleghe Monica Baggio e Monica Salvadori sentivamo: i nostri stipendi sono soldi pubblici, le nostre ricerche sono patrimonio pubblico, l’Ateneo, insieme alla Cassa di Risparmio, ha investito tanto su di noi, pensavamo di dover restituire qualcosa. Siamo convinti che più se ne parla, meglio è. Già Massimo Pallottino nel 1961-62 sosteneva che si dovesse parlare delle mistificazioni – le chiamava così, le mistificazioni – antiche e moderne perché solamente così “si potrà combattere il male”. Il tema della falsificazione uscirà poi anche negli atti della Commissione Franceschini del 1964-68».
Anche nella collezione fotografica di Federico Zeri c’è un fondo dedicato ai falsi.
«Un fondo eccezionale recentemente pubblicato online. Federico Zeri in Italia è stato un cacciatore di falsi, ha dato un impulso importante allo studio, è stato uno dei pochi ad avere subito dei dubbi sulle teste Modigliani di Livorno, altri – anche nomi molto altisonanti – ci sono cascati rimettendoci la carriera. Mark Johnson nel 1990, in occasione di una mostra al British Museum, scriveva che il falsario è un grande problema, ma è un grande problema per gli esperti. Ed è vero. C’è la paura di sbagliare, magari anche noi qui stiamo sbagliando, lo mettiamo in conto».
I pezzi dubbi sono dichiarati.
«Certo, infatti la seconda sala è un po’ più spoglia perché ci volevamo concentrare su un paio di concetti come l’utilizzo di nuove tecnologie per riprodurre un vaso per la fruibilità e l’accessibilità. Oggi si può fare, ci stiamo lavorando. Abbiamo poi un vaso che è in una collezione degli anni ’70, studiata dai più grandi esperti, dichiarata di interesse dal Ministero, in realtà, secondo noi, quel pezzo è falso: la ricerca procede e le tecnologie avanzano, non è ancora stata scritta l’ultima pagina del percorso. Noi vogliamo porre l’attenzione sul tema e rompere gli schemi. Non tutto ciò che vediamo è vero, non tutto ciò che sentiamo, non tutto ciò che leggiamo è vero».
Il Cultural Legal Lab è una evoluzione del Progetto MemO?
«Già con il Progetto MemO avevamo collaborato in più occasioni con il Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale, con i vari Dipartimenti di diritto della nostra Università, Diritto privato, Critica del diritto, Diritto pubblico comunitario internazionale. Con il Cultural Legal Lab vogliamo mettere in relazione più voci perché siamo convinti che solo così si possa affrontare questa tematica, con un occhio attento e soprattutto approfondito».
A chi si rivolge?
«A più pubblici. A chi frequenta questa esposizione, agli studenti che prendono parte alle iniziative, ai seminari, ai laboratori, ai colleghi con cui stiamo ragionando quali tecniche, quali nuovi strumenti, quali protocolli possiamo utilizzare per distinguere i falsi. Anche due stanze espositive come queste hanno restituito nuova linfa vitale per la ricerca, esattamente come la collezione Marchetti nel 2015. I falsari sono i primi a studiare e a informasi, anche noi dobbiamo essere sempre sul pezzo, non dobbiamo rimanere indietro».
Quali rapporti intercorrono con il Laboratorio del Falso dell’Università di Roma Tre?
«Lavoriamo spesso con l’Università di Roma Tre. Abbiamo appena avviato un nuovo progetto di rilevanza nazionale, finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca grazie ai fondi NextGenerationEU, che prevedere la collaborazione delle due unità di ricerca di Padova e di Roma. Aggiungo che non sono molti i gruppi di ricerca che si occupano di falsi, c’è però l’intenzione stringente di collaborare con l’Università Ca’ Foscari di Venezia e con il professor Lorenzo Calvelli, che ha portato avanti un progetto sui falsi epigrafici, e con l’Università degli Studi di Trento dove il professor Sandro La Barbera sta lavorando sui falsi letterari del mondo latino. Stiamo cercando di capire come collaborare per creare una unione di intenti, che possa in Italia essere di aiuto a tutti anche su filoni differenti. Ci stiamo provando».





Giornalista pubblicista. Dopo la laurea a Trento in Scienze dei Beni Culturali, in ambito storico-artistico, ho “deragliato” conseguendo a Milano un Perfezionamento in Scenari internazionali della criminalità organizzata, un Master in Analisi, Prevenzione e Contrasto della criminalità organizzata e della corruzione a Pisa e un Perfezionamento in Arte e diritto di nuovo a Milano. Ho frequentato un Master in scrittura creativa alla Scuola Holden di Torino. Colleziono e recensisco libri, organizzo scampagnate e viaggi a caccia di bellezza e incuria.