Il restauro è sempre conservazione?
Riflessioni dopo un’indagine sul campo nel caveau dei Carabinieri TPC di Roma
Introduzione
Nel corso di un’operazione di sequestro di opere d’arte avvenuta all’inizio del 2024, sono stata incaricata di redigere i condition report e di supervisionare il trasferimento delle opere in un deposito temporaneo. In quella circostanza ho osservato un dato che ha immediatamente attirato la mia attenzione: molte delle opere sequestrate risultavano restaurate. Alcuni interventi apparivano corretti e documentati, altri sollevavano interrogativi per le modalità tecniche e per l’assenza di tracciabilità. Questa osservazione ha innescato una riflessione più ampia:
può il restauro, anziché preservare, essere utilizzato per alterare l’identità di un’opera d’arte?
È da questa domanda che è nato il progetto di ricerca sviluppato nell’ambito del Master in Cultural Property Protection in Crisis Response dell’Università degli Studi di Torino.
Tra percezione e realtà: il sondaggio ai restauratori
Per indagare la consapevolezza del problema all’interno della comunità professionale, ho promosso un sondaggio rivolto a restauratori e restauratrici operanti in contesti diversi, sia pubblici che privati. Hanno risposto 160 professionisti da più continenti, con vari livelli di esperienza. Il dato emerso è significativo:
la maggior parte dei partecipanti, a prescindere dall’area geografica o dal profilo professionale, non percepisce il traffico illecito come un rischio direttamente connesso alla propria attività. Questa sottovalutazione, seppur comprensibile, apre un’importante zona grigia. Quando un’opera entra in laboratorio priva di documentazione chiara o senza interrogativi sul suo contesto, il restauratore rischia inconsapevolmente di diventare un anello della filiera illecita. Anche un intervento tecnicamente corretto può, in assenza di trasparenza, contribuire a far “sparire” un’opera nella sua forma originale, e farla riapparire alterata e decontestualizzata.
La verifica sul campo: il sopralluogo nel caveau del Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale (TPC) di Roma,
Per approfondire questi aspetti in modo oggettivo, ho richiesto l’accesso al caveau del Comando Carabinieri TPC di Roma, al fine di condurre un’indagine diretta su opere sequestrate. Durante due giornate di ispezione, ho analizzato 58 opere, prevalentemente dipinti su tela e tavola, ma anche affreschi e mosaici. Solo una non risultava restaurata.
La metodologia adottata ha incluso:
- La selezione di opere antiche o moderne, escludendo quelle contemporanee (per via della più alta falsificabilità e della minor rilevanza rispetto al restauro tradizionale);
- L’impiego di strumenti scientifici non invasivi come lampade UV e termocamere IR, utili a rilevare ritocchi, alterazioni materiche e interventi nascosti;
- L’osservazione strutturale e comparativa di interventi precedenti non documentati, come doppi telaggi, ricostruzioni pittoriche integrali, modifiche formali (incluso l’ampliamento della superficie pittorica), e firme contraffatte;
- La valutazione di manufatti staccati o strappati, conservati in casse lignee, spesso privi di elementi contestuali che ne giustifichino la rimozione;
- Una stima approssimativa dei costi di restauro sostenuti, con l’obiettivo di quantificare l’eventuale incremento di valore commerciale dell’opera.
In diversi casi, è risultato evidente che il restauro fosse stato impiegato non per finalità conservative, bensì per rendere l’opera meno riconoscibile o più appetibile sul mercato.


Etica e ambiguità: il ruolo del restauratore
Questa esperienza ha rafforzato in me la convinzione che il restauro non possa essere considerato un’operazione neutra.
Il restauratore, infatti, opera in un delicato equilibrio tra responsabilità tecnica, scientifica ed etica. In presenza di pressioni da parte di proprietari, intermediari o clienti, anche richieste apparentemente innocue — “coprire”, “uniformare”, “valorizzare” — possono rientrare in un contesto finalizzato alla manipolazione dell’opera o alla sua ricollocazione illecita.
Il rischio non riguarda solo l’azione dolosa, ma anche l’inconsapevolezza professionale. È per questo che occorre promuovere una cultura della trasparenza, della tracciabilità e della riflessione critica, in grado di rafforzare la deontologia del settore.
Conclusione
Tecnologie diagnostiche come l’UV o l’infrarosso ci aiutano a vedere ciò che l’occhio umano non rileva. Ma è solo attraverso un cambio di prospettiva che possiamo davvero iniziare a guardare oltre la superficie.
L’esperienza del caveau, unita alla risposta del sondaggio, ha confermato la necessità di lavorare sulla formazione continua dei restauratori, sulla condivisione delle buone pratiche e sull’apertura a un dialogo interprofessionale con le forze dell’ordine, le istituzioni e il mondo accademico.
In un settore dove l’ambiguità può essere sfruttata per fini illeciti, il restauratore può — e deve — essere parte della soluzione.

Restauratrice italiana accreditata dal Ministero della Cultura nei settori 1,2, e 3. Laureata in Conservazione e Tutela dei Beni Architettonici e Artistici presso l’Università di Udine, ha completato un Master in Cultural Property Protection in Crisis Response (CPP) all’Università di Torino. Con un’esperienza pluriennale nella gestione di progetti di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, ha operato in contesti emergenziali come terremoti e alluvioni. Relatrice internazionale e project manager per interventi complessi, collabora con il Comando Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri, contribuendo alla salvaguardia e alla sicurezza delle opere d’arte sequestrate.